mercoledì 24 luglio 2013

Il pescatore.


Lo sapeva, se lo sentiva che sarebbe accaduto proprio in quella circostanza, era il momento che aspettava da tempo. Non provava dolore né tristezza, ma solo la fredda consapevolezza di essere arrivato al capolinea, finalmente. Poche ore prima, quando si era svegliato, l’idea di quello che avrebbe fatto quel giorno gli era balenata violentemente nella testa appena aperti gli occhi. Alzandosi con fatica dal letto, sentendosi addosso tutti i suoi settantotto anni, aveva deciso che sarebbe andato giù al fiume a pescare, come faceva fino a qualche anno prima, quando, in compagnia di vecchi e fidati amici, trascorreva serenamente le lunghe giornate della tanto agognata e altrettanto odiosa età della pensione. Aprendo le tapparelle della vecchia casa del paesino sperduto nelle campagne della bassa padana, si trovò di fronte il solito panorama piatto, mosso appena dalla linea ferroviaria ad alta velocità, che negli ultimi anni aveva dato un po’ di brio alle conversazioni davanti ad un bicchiere di bianco al bar.  Il cielo era acciaio che lasciava cadere obliquamente lacrime sottili e timide.  Non aveva avuto bisogno di guardare fuori per sapere che il tempo quella mattina era inclemente, se lo sentiva nelle ossa, che avevano scricchiolato con sinistri clack in ogni giuntura appena messi i piedi per terra. L’artrite è una ruggine spietata che consuma le energie, lentamente, giorno dopo giorno, lotta strenuamente contro la tua volontà di andare avanti fino a trasformarti in una statua, immobile. Ogni movimento ti costa sempre più fatica e dolore.  Ora l’uomo cerca di stirarsi allungando le braccia verso l’alto e piegando il collo da una parte all’altra, con cautela, senza strafare, giusto un po’, per riattivare la circolazione del sangue nell’organismo, per dare una lieve scossa. Per dire “io sono ancora qui, ho ancora bisogno di te, caro vecchio e stanco corpo”.

L’aria non è particolarmente fredda, l’autunno quest’anno sta regalando giornate dalle temperature miti. Sarà colpa del riscaldamento globale, che a dirla tutta a lui qualche grado in più non ha mai fatto male, anzi. Respira a pieni polmoni il dolce profumo dell’erba bagnata, inspirando col naso, poi chiude la finestra, esce dalla camera da letto e cammina verso la cucina. Mette a scaldare il latte mentre si prepara il caffè  nella piccola caffettiera da uno. Dallo scaffale di fianco al lavandino prende le fette biscottate che immergerà nel caffelatte, ha rinunciato a tante cose col passare degli anni ma a quello proprio non riesce a fare a meno, il gusto della fetta che si imbeve di latte è un piacere che non può negare al proprio palato. Dopo la colazione va in bagno, si lava e si fa la barba, come ogni mattina, anche se ormai cresce pochissimo e si vede giusto un’ombra grigia sotto il naso e sul mento. Si guarda allo specchio, gli occhi di un verde chiaro, leggermente velati dall’età, lo osservano con quella pacata serenità di chi nella vita si è sempre comportato seguendo le regole. Ubbidendo al conformismo e ai canoni imposti dal vivere in un piccolo paese. Del resto a lui non è mai costato grande fatica, i suoi genitori lo avevano educato al rispetto verso se stesso e verso gli altri, senza compromessi. Una vita limpida, senza macchie, senza inutili voli pindarici e grandi sogni irrealizzabili, che possono permettersi solo quei fortunati nati nelle famiglie ricche.

Un matrimonio riuscito, un figlio di cui andare fieri. Il lavoro nella bottega paterna come calzolaio. Gli amici del bar Centrale. La vita che, placidamente, scorre via. Felicemente ? Sì, felicemente, perché anche sapersi accontentare di quello che si ha è un pregio, un dono del Signore e va custodito gelosamente e con parsimonia. Poco dopo è indaffarato nella preparazione della cassetta per la pesca, nella quale sta controllando che tutto sia in ordine : le lenze, gli ami, le pinze, il coltellino. Prende dallo sgabuzzino il secchiello giallo, che spera di riportare a casa pieno di pesci. Dall’armadio sfila la giacca senza maniche color verde scuro zeppa di tasche di ogni misura, è stato un regalo di lei. Ricorda il giorno in cui Teresa, sua moglie, gliel’ha fatta trovare ben stesa sul divano a due posti in sala. Era il suo compleanno, era così giovane e in gamba allora. Compiva sessant’anni e loro due erano già sposati da quasi quarant’anni. Torna in cucina per prepararsi un panino al prosciutto cotto e versa in una bottiglietta di acqua, già piena per metà, un po’ di vino fino a riempirla. Prende il cappellino, quello che indossa sempre in queste occasioni, lo mette in testa, prende la cassetta ed esce di casa dopo aver dato un ultimo sguardo all’appartamento silenzioso.

Il viaggio con la vecchia utilitaria è breve e si svolge nel silenzio della campagna che sta ancora riposando. Non c’è molto da fare in giornate come questa. Anche di macchine in giro ce ne sono poche.

Un’ora più tardi è seduto nella sua seggiolina ripiegabile, la canna da pesca tenuta mollemente tra le mani, lo sguardo sull’acqua verde del fiume che passa lenta sotto i suoi occhi. Qualche uccellino che vola via cantando malinconicamente. I ricordi che si presentano alla porta della memoria senza invito. Un sorriso malinconico. La vita.

Il primo pesce della giornata lo coglie impreparato, il galleggiante scompare per un attimo sotto il pelo dell’acqua, è una lotta impari ma a giudicare da quanto tira la lenza deve essere un barbo, i pesci più combattivi della zona. L’uomo gioca col mulinello, avvolge e lascia, dà tregua per qualche attimo e poi tira con determinazione, la forza del pesce diminuisce, la battaglia è finita, viene sollevato dall’acqua. Un guizzo, due colpi di coda, qualche schizzo d’acqua. Guido stacca con delicatezza l’amo dalla bocca del pesce, che sembra lo guardi con rabbia, con aria di sfida, e lo depone nel secchio giallo.

“Luigi ci facciamo un goccio?”. Ha parlato per la prima volta da quando si è svegliato e lo ha fatto con un vecchio amico. Un amico morto ormai da tre anni. A volte si dimentica di essere rimasto solo. Sfila dal sacchetto di tela la bottiglietta di acqua e vino e prende una sorsata.  La mattina sta scivolando via, nel secchio giallo un barbo e due cavedani si contendono lo spazio nuotando nervosamente.

“Mario, alla fine non ci siamo mai andati verso “il fosso”, dove il Luigi per un pelo ci moriva. Lo sai che dicono che lì ci sono delle carpe spettacolari, ma noi abbiamo sempre avuto timore di scivolare sui sassi. La paura ci ha privato di tante cose. Forse abbiamo giocato male le nostre carte. Forse avremmo dovuto osare di più”.

Il galleggiante in fondo alla lenza affonda ancora una volta, Guido non si accorge di nulla, continua il suo monologo con gli amici di un tempo. Il fatto che non si vedano non vuol dire che non ci siano, che non siano di fianco a lui a condividere ancora una volta una serena giornata di pesca tra amici. Lui li vede, li sente. Percepisce la loro presenza. Una volta ha sentito dire in un film, che si deve pensare ai propri cari morti come se fossero nella stanza accanto alla nostra, non puoi vederli ma sai che sono lì, accanto a te. Questo pensiero col tempo lo ha rasserenato, gli ha ridato la certezza della compagnia di cui aveva tanto bisogno per non impazzire di solitudine.   Si alza dal seggiolino barcollando leggermente, raccoglie la canna da pesca, e si avvia verso quello che lui e gli amici hanno sempre chiamato “il fosso”, una pozza profonda dalla forma circolare, larga circa tre metri a pochi passi dall’argine del fiume, verso il centro del greto.

“Teresa, stasera ci facciamo una frittura che te la sogni. Non ti preoccupare, li pulisco io i pesci, lo so che è un lavoro che non ti piace fare, non ti è mai piaciuto. In fondo in cucina non ti sei mai sentita a tuo agio. A avevi tante altre doti stupende, ma io ti amavo più per quelle che ti mancavano. Ti rendevano più vulnerabile e dolce. Ah, pensavo di invitare anche Mario e Luigi, se la pesca va come immagino ci sarà pesce per tutti”.

L’uomo cammina a testa bassa, stando bene attento a dove mette i piedi, si ferma per un attimo e si guarda intorno, come a voler fotografare quell’attimo, imprimersi nella memoria le forme, i colori, gli odori di quella giornata passata ancora una volta con gli amici di un tempo, a pescare.

Ritorna a quelle giornate lontane, alle risate, alle battute feroci tra loro quando tornavi a casa senza aver preso niente, felice comunque per aver trascorso tante ore liete con i propri amici. Ricorda Teresa, che lo aspettava trafelata, sempre intenta a tenere in ordine la loro casetta, il loro nido, come soleva dire teneramente lei con orgoglio.

Guido è ormai giunto sul ciglio del fiume, fa qualche passo avanti, avventurandosi nell’acqua bassa, verso “il fosso”. Cammina con passo malfermo, la canna nella mano destra, il braccio sinistro tenuto lontano dal corpo, come un’equilibrista che ha bevuto un bicchierino di troppo, procede verso la sua meta.

“Tranquillo Luigi, sto attento. Lo so che è pericoloso, che i sassi qua sotto sono infingardi e traditori. Mario, tu tieni d’occhio il mio secchio coi pesci, guarda che li ho contati, se quando torno ne manca qualcuno ti sfilo il sellino della bicicletta e ti faccio tornare a casa così”. Ride di gusto ora, quella è una battuta che usano tra di loro da tutta la vita, da quando erano ragazzini coi pantaloni corti e correvano per i campi alla ricerca di qualcosa da mangiare, dopo  la guerra. Lentamente arriva in prossimità del “fosso”, getta l’amo verso il nero di quel buco che lo ha sempre intimorito e aspetta. Uno strattone, un altro, un po’ più forte. Risponde al colpo con determinazione, sente un’allegria nuova sfociargli dal petto, sta pescando al “fosso”, ha vinto la sua paura, ha sconfitto l’istinto di conservazione, che con la vecchiaia si è forse assopito, l’ha colto di sorpresa. Fregandolo. Prova a dare un altro scossone tirando a se la canna, ma succede qualcosa.

Un piede scivola su un sasso piatto, l’equilibrista vacilla, si scompone, cade in acqua con un tuffo sordo. Le braccia si agitano nell’acqua scura, un respiro che si interrompe dall’afflusso di acqua che lo coglie all’improvviso riempiendogli la bocca. I vestiti inzuppati sono un’armatura di ferro che tira verso il basso con rabbia. Le braccia si muovono meno, la stanchezza sta prendendo il sopravvento. “Arrivo Teresa, prepara la tavola, tra poco sono da te”. Un altro guizzo verso l’alto, un disperato tentativo di tornare a galla, un respiro profondo, poi la lenta discesa verso il buio.

 “I miei pesci, li ho lasciati nel secchiello, moriranno. Speriamo che qualcuno li trovi prima che muoiano, sarebbe un vero peccato”.
 L’ultimo pensiero di Guido fu per i suoi pesci, gli avevano tenuto compagnia così tante volte, forse era giusto che fossero loro ad accompagnarlo anche nel suo ultimo viaggio, il viaggio verso sua moglie e i suoi amici, verso la pace di un’eternità senza artrite né dolori.