giovedì 31 maggio 2012

I Miei Corti - Oggi è già domani

Oggi è già domani.

È una di quelle giornate in cui staresti a letto fino a mezzogiorno, sotto le coperte ad oziare pigramente fino a che la schiena ti fa male, e invece senti quei fastidiosi rumori provenire dalla cucina; tua madre è già lì che sta preparando la colazione. Oggi si va in montagna, attività: odiosissima castagnata.
Arriviamo, dopo un viaggio noioso passato a sonnecchiare, in questo paese dimenticato, giustamente, da Dio e dagli uomini. Il papà parcheggia la sua vecchia SW nel minuscolo parcheggio del paese, è tutto allegro, anche la mamma sembra di buon umore, solo a me sarebbe piaciuto stare a casa a guardare la tv? Sono io quella strana della famiglia?
 Il cielo ha un colore plumbeo, le foglie gialle e rosse sono un tappeto dalla cromia calda ed accogliente, il ché fa decisamente a pugni con la giornata grigia e fredda. Chiusa nel mio giaccone imbottito mi incammino svogliatamente, capo chino e mani affondate nelle tasche, dietro ai miei genitori, che hanno puntato decisi verso un versante della montagna dove, sono sicuri, è pieno di ottime castagne. Ma guarda te mio padre, sembra un ragazzino, tutto felice, coi suoi guanti gialli raccoglie ricci su ricci, neanche fossero tartufi pregiati. Li apre con attenzione per poi buttare il contenuto nella sporta che va via via riempiendosi. Mia madre fa altrettanto, forse un po’ meno gioiosa ma lavora di buona lena anche lei, fosse così anche quando fa i mestieri di casa il papà le farebbe meno storie sull’ordine e la pulizia che alberga tra le mura domestiche, penso con una smorfia sghemba sul volto da condannato a morte.
 Non c’è che dire, proprio una bella giornata. Che noia, cerco il telefonino nella tasca dei jeans, noooo non c’è campo, e adesso come faccio ? devo messaggiare, devo chiamare Lucrezia, devo mettermi d’accordo per domani, usciamo o no con quei due super fighi della 3a B. Lo sapevo, posto schifoso e giornata schifosa. Se invece di avere solo tredici anni ne avessi ventitre o trentatre o non lo so, a quest’ora lo so io dove sarei.
 Lo spazio di un battito di ciglia e la piccola Lucia si vede in una chiesa riccamente addobbata con meravigliosi bouquet di fiori bianchi sparsi ovunque, un po’ come per un matrimonio per capirci. Eh già, il suo. Da lontano, in fondo alla chiesa, di fianco al prete dal volto tondo e bonario, vede colui che diventerà suo marito, un bell’uomo non c’è che dire, un sorrisino furbo attraversa il volto della ragazza, ottima scelta Lucia. Fatti solo pochi passi incerti nella chiesa vociante di amici e parenti, e si trova sdraiata improvvisamente su di un letto in una sala d’ospedale.
 Sente un dolore da togliere il fiato al basso ventre. L’ostetrica le sta gridando di spingere, la testa della sua bambina è già fuori.
 “Spingaaaaa”.
 Ancora scossa dalla sensazione assolutamente inattesa e destabilizzante di maternità, la scena cambia ancora sfondo. Ora è a un altro matrimonio, spera solo che non sia il suo secondo, era così bello il suo primo marito.
 È quello di Anna, la sua bambina, diventata ormai una splendida donna. Lucia è così fiera, si guarda le mani che tengono un fazzoletto bagnato di lacrime di gioia, sono grinzose, invecchiate, si rende conto con una punta di nostalgia che gli anni sono passati in un lampo. Al marito, di fianco a lei, i capelli grigi hanno preso il posto di quei bei capelli neri del giorno delle nozze, oramai così lontane, perse in ricordi neanche sbocciati.
 Appena il tempo di sentire un groppo chiuderle la gola che si trova esattamente nel bosco della castagnata, sente una voce dolce come zucchero filato che le grida in lontananza.
“Nonna, nonna guarda cosa ho trovato!”.
 Sente che camminare le costa un po’ di fatica, ha quella strana sensazione di affanno, tipica delle persone anziane, pensa. Ma quando vede quell’angelo correrle incontro, con un sorriso aperto come una scatola di cioccolatini il giorno di Natale, la stanchezza le passa all’istante, lasciando il posto ad una commozione che non ha parole presenti nel vocabolario per spiegarsi. La riconosce subito, la figlia di sua figlia arriva trafelata, una ciocca di  capelli biondi le esce dal cappellino di lana scuro.
 “Nonna, tieni, la mamma dice che porta fortuna”.
 Sulla sua manina una castagna rotonda come una biglia. Lucia la prende, la osserva un attimo e poi la mette in tasca, prima di chinarsi per baciare la piccola su una guancia arrossata dal freddo. “Lucia, ma si può sapere cosa ti è preso ? ti sei imbambolata?”.
 La voce di sua madre la riporta alla realtà, al bosco, al grigio di quella mattina che avrebbe volentieri passato a letto, alla castagnata coi suoi genitori. D’un tratto sente il bisogno impellente di abbracciare sua madre e suo padre, corre verso di loro e li stringe forte, come se lasciandoli potessero scomparire nella bruma, che li avvolge fino alle caviglie, alzandosi lenta dal terreno umido.
 “Ehi, e questo cosa vuol dire?”.
 E’ suo padre che ha parlato, piuttosto sorpreso, staccandosi lievemente dal triangolo perfetto che aveva creato l’abbraccio di Lucia.
 “Vuol dire che vi voglio bene e sono contenta di essere qui oggi, grazie”.
 Lucia si stacca di mezzo passo dai suoi genitori, continuando a tenerli per mano, lasciando i suoi ad osservarla piuttosto perplessi, sente una lacrima scenderle sul viso, cerca il fazzoletto in tasca ma trova qualcos’altro. Qualcosa di levigato e duro. Quando lo toglie dalla tasca per guardarlo si trova tra le mani una castagna, bellissima, lucida e rotonda, proprio come una biglia.

martedì 29 maggio 2012

Milano.

Milano è la città dove sono nato e dove vivo, non si può dire che sia una bella città, non la annovererei di sicuro tra le dieci città più belle d’Europa, e forse neanche d’Italia, al limite della Lombardia ecco, ma solo perché un po’ ci sono affezionato alla mia città. Milano però, nonostante tutto, ha i suoi pregi, i suoi lati, come dire, gradevoli.
Ha il castello Sforzesco, maestoso e imponente. Il Duomo, cattedrale gotica eternamente in manutenzione. Ha “L’ultima cena” di Leonardo e tante altre piccole grandi chicche che un turista medio può ritenere cosa buona e giusta da visitare.
Milano è famosa nel mondo per la moda e per la finanza. Per l’amaro Ramazzotti e il rito dell’aperitivo. Per le due scale, quella del calcio e l’altra, dove si canta e si balla allegramente e una volta all’anno si riempie di personalità di spiccata fama, integrità morale e buon gusto.
Milano è famosa per il panettone e per la nebbia.
Ma quello che rende davvero particolare Milano nelle ingenue menti dei non milanesi sono alcuni dettagli, divenuti col tempo il vero marchio di fabbrica della città che non dorme mai.
Già perché Milano rappresenta nell’immaginario collettivo la città sempre di corsa, dove tutto viene fatto per bene e in fretta, dove le persone le vedi scappare trafelate da un posto all’altra manco fossero inseguite da branchi di trader affamati. Dove tutto viene fatto secondo una logica chiara, cristallina, come direbbe Elio : inattaccabile.
 E qui casca l’asino.
Sì perché Milano ha delle peculiarità che come minimo ti spiazzano, ti lasciano attonito e in un bagno di sudore.
Avete presente Piazza della Scala ? bene. Qual è la statua che svetta imperiosa in mezzo alla piazza? La statua di Leonardo da Vinci. E allora uno si dice, va  beh, ci può stare. Infatti.
Ma esiste una piazza Leonardo da Vinci a Milano? Esiste e ha la sua bella statua : Eugenio Villoresi, quello del canale.
E allora il dubbio ti assale e ti viene da guardarti un po’ intorno, e scopri che anche in piazza Buonarroti ( avete presente Michelangelo ? immortale artista del rinascimento? ) c’è una bella statua ma non è quella che ci si aspetta, a meno che non vi aspettiate di trovarci quella di Giuseppe Verdi.
In via Giuseppe Verdi del resto non ci sono statue né effigi, e forse è giusto così.
E che dire dello sguardo severo del Manzoni che squadra malevolo i passanti da piazza San Fedele, o del Parini che avvolto nello scialle della nonna fa bella mostra di se in piazza Cordusio.
Lasciando via Manzoni e via Parini spoglie di ogni ornamento, non fosse per il cinema Manzoni e il liceo Parini.
Garibaldi in groppa al suo cavallo sembra non fare molto caso al fatto di trovarsi in piazza Cairoli anziché in corso Garibaldi.
Ma sarebbe stato bene anche in piazza Risorgimento, ma purtroppo era già occupata, da Cavour ? no, per fortuna Cavour lo hanno messo in piazza Cavour.In piazza Risorgimento c’è la statua San Francesco d’Assisi. Ovvio.
Oppure potevano parcheggiarlo in corso Indipendenza, ma l’indipendenza in fondo è solo una bugia, e forse è per quello che ci hanno messo un monumento a Pinocchio.
Ma ad essere onesti ci sono anche piazze che portano il nome della statua o del monumento che ospitano e viceversa, non è che viene fatto tutto a caso a Milano. Ogni cosa ha una sua logica.
E a proposito di logica, mi piace sottolineare la geniale invenzione del lavaggio strade.
Ma secondo voi, le automobili hanno davvero bisogno di una carreggiata lavata e incerata per avanzare sicure nella giungla d’asfalto ? Milano è una città dove circolano più SUV che utilitarie, forse che questi pachidermi inutili, anzi dannosi, fanno pure gli schizzinosi? “Ah guarda, io se la strada non è lucida lì non ci passo, non ho nessuna intenzione di sporcarmi gli pneumatici”.
Cioè, io sui marciapiedi devo fare lo slalom tra deiezioni canine, impetuosi torrenti di urina e spazzatura varia manco fossi Alberto Tomba, e loro fanno il lavaggio delle strade? Come dicevo : geniali.
Milano è una città sempre di corsa ? ma dove ? uno già esce di casa incazzato per la giornata che sta iniziando e tutto ad un tratto, girato l’angolo, si rimane imbottigliati dietro al camion della nettezza urbana che, tra sbuffi di pistoni, urla di immondizia stritolata e tanfo di morte se ne sta bloccato nel mezzo di vie a senso unico alle 8 e mezza della mattina. E gli automobilisti dietro, sempre più incazzati, con la vena sulla fronte che pulsa minacciosa, pronta ad esplodere.
 Che bella Milano, così in movimento eppure così perennemente incastrata nel traffico. Così sporca ma anche così pulita, o almeno con le mani pulite. Così modaiola e allo stesso tempo fuori corso, come la logica, che sembra non appartenere più al genere umano.
E come diceva Alberto Fortis nella sua canzone "Milano e Vincenzo" :
Mi piacciono i tuoi quadri grigi
le luci gialle, i tuoi cortei
oh Milano, sono contento che ci sei.
Vincenzo dice che sei fredda,
frenetica senza pieta'
ma e' cretino e poi vive a Roma, che ne sa?

e se avesse ragione Vincenzo ?

giovedì 24 maggio 2012

Come scrivo

Non so se esiste il modo "giusto" per scrivere un romanzo, penso di sì e immagino ne esista anche più di uno. Nel mio piccolo anche io ho un metodo, lo definirei : puzzle.
Perchè in effetti è proprio quello che faccio, quando inizio non seguo un andamento temporale nella narrazione, ma scrivo i capitoli quando mi vengono in mente, quando mi si apre l'ispirazione.
Ed ecco un altro passo fondamentale della mia scrittura, l'ispirazione.
Che poi non è che sia così ispirato...ma tant'è...
Già, perchè io mi siedo davanti al PC e apro il documento della "meravigliosa opera" solo se sento che ho qualcosa da scrivere, non potrei sopportare l'immobiltà delle mie dita sulla tastiera, la mancanza di idee da convertire in frasi che sfociano nel compimento di un testo dalla forma e dal contenuto per lo meno sensato; proprio no, non ce la farei a stare parcheggiato su un foglio bianco, inesorabilmente bianco perchè non trovo le parole, o peggio ancora perchè non riesco a dipanare un'idea che sia una dalla mia confusione che alberga beata, come un tedesco di 90 kili in riva al mar adriatico all'altezza di Bellaria, nella mia testolina. E allora nell'attesa faccio altro, fregandomene allegramente se non mi viene in mente niente da scrivere, prima o poi l'idea mi verrà, spero. Quindi fondamentalmente cazzeggio, perchè io non posso stare fermo con le mani nelle mani troppe cose devo fare prima che venga domani e se lei...ma lasciamo stare Cocciante e andiamo avanti.
Il difficile di questo piacevole hobby è la conversione idea-romanzo in qualcosa di scritto, difficilissmo è rendere quello che si è scritto in qualcosa di leggibile.
Perché, come dico sempre, io non sono un granchè come scrittore e scrivo in maniera che all'occhio del più esperto, ma anche del meno esperto, può apparire casuale. Voi sì, che avete occhio!
E mi sovviene un ricordo. Quando ero giovane, secoli fa, ogni tanto mi capitava di giocare a carte con gli amici, scopone scientifico, briscola, poker, ruba mazzetto, cose così insomma. Beh, c'erano delle volte in cui le carte venivano distribuite in ordine sparso, a caso, senza seguire il senso orario o anti orario. Una, una , una...no, se ne davano due a quello a destra, una a quello a sinistra, due a quello in mezzo e così via. Quel metodo noi lo chiamavamo Giro Pazzo.
 Con il mio primo romanzo Abbastanza ?...No Grazie! ho scritto il primo capitolo e l'ultimo praticamente nello stesso momento, sapevo benissimo da dove partivo e dove volevo andare a finire. E' stato facile sotto certi aspetti. Poi le diverse situazioni descritte tra i due limiti temporali sono state scritte in ordine randomico e piazzate nel testo secondo la logica del prima e del dopo. Lo stesso dicasi per gli altri romanzi ( non pubblicati ): "Come un violino senza corde" e "Raimondo". Anch'essi creati in modalità puzzle. Che poi quando faccio i puzzle con mia figlia io un metodo ce l'ho, ovvero parto  dai bordi, facile.
Invece quando scrivo vado davvero a caso, mi viene l'idea per un capitolo, lo scrivo e poi con calma vedrò dove metterlo.
Con Farfalle a Milano è stato un altro film. La storia ce l'avevo ben precisa nel momento in cui mi è entrata nella testa l'idea. In un paio di giorni sapevo esattamente cosa far accadere, capitolo per capitolo, che poi è stato facile perchè la storia si svolge in una settimana, quindi il lato temporale del romanzo è assolutamente lineare. Me la sono fatta facile!! :-)
Quindi una volta deciso cosa sarebbe successo il mercoledì o il sabato potevo scrivere prima un giorno e poi un altro senza troppe elucubrazioni ( che poi mi viene il mal di testa) e così ho fatto.
E allora mi chiedo, scrivere capitoli così come vengono in mente e scrivere solo quando si ha l'isipirazione, si può considerare un metodo ?
Cosa è giusto e cosa è sbagliato alla fine sono solo punti di vista, almeno in questo caso. Penso che quello che conti è il risultato finale e questo è lì da leggere, piaccia o meno.

mercoledì 23 maggio 2012

I Miei Corti - La Famiglia

La famiglia

Mi sveglio che è ancora buio, con una sensazione di terrore ed un dolore improvviso alle costole, il terrore è per quello che mi aspetta tra poche ore, il dolore alle costole è la gomitata che mi ha dato mia moglie per svegliarmi. Mi domando come si sia passati dai baci dei primi anni di matrimonio alle gomitate e da quando. Non me lo ricordo neanche più. Fatto sta che continuo a fare questo sogno che mi tormenta ormai da mesi, ogni volta la stessa storia.
 Lei mi appare così, dolce, bella, intelligente, giovane, io ? beh, io sono io. Ah l’amore….mi alzo più velocemente che posso, un po’ piegato sul fianco dolorante, infilo le pantofole, mi do una sonora scrollata ai gioielli di famiglia e mi incammino verso il bagno. Lei, che nello stato di famiglia risulta sotto la voce moglie, è già corsa in cucina, ha tanto da fare oggi, l’aria intorno è elettrica, pregna di vita e di morte, sarà la tensione per il nefasto pranzo della domenica ormai prossimo, ma anche il cotechino sul fuoco da tre giorni gioca un suo ruolo. Le lenticchie invece, dopo aver passato a bagno una intera settimana, hanno deciso di andare a passare le feste in montagna, lasciandoci un biglietto di saluti. Il bagno è occupato da Luca, presente nello stato di famiglia sotto la voce figlio, quando esce, con una faccia che non riconosco, biascica un “Pà, devo andare in montagna con Franco e Matteo, mi servono 200 euro, e poi la mia giacca a vento….è vecchia pà, devo comprarne una nuova, mi servono dei soldi”. Da quanti anni con mio figlio si è creato questo rapporto? Mi sembra me quando vado in banca a chiedere prestiti, praticamente non è mio figlio, è un mio cliente. Sto ancora riflettendo su quanto sia gratificante  avere un figlio maschio, che suoni dodecafonici da brivido mi scuotono fino alle budella improvvisamente, è lui che ha acceso la sua play station, già perso nel suo mondo virtuale. Quando arrivo in cucina per la colazione scopro che questa mattina non la farò, mia moglie mi ha fatto capire, con un sottile giro di parole che sarebbe stato meglio per me evitare. “Dove credi di andare tu? vuoi fare colazione con quello che mangeremo tra poco ? spicciati a prepararti che mi devi aiutare, guarda come sei conciato, anzi prima vai a preparare la tavola così ci portiamo avanti”. Ottimo, vado a preparare la tavola, stendo la tovaglia verde, metto i piatti bianchi, i bicchieri di vetro trasp...”ma cosa stai facendooooo??”. Un grido a diecimila decibel fa tremare i vetri delle finestre, fa cadere tutte le foglie del ficus beniamino, esplodere tre bicchieri di cristallo e spaventare la nonna appesa nel suo bel ritratto in corridoio.
 E’ mia moglie, l’altra metà della mela. “Togli tutto quello che hai messo, ma ti sembra che per il pranzo di Natale mettiamo quella brutta tovaglia e i piatti di tutti i giorni?
 Devi mettere quella nuova, quella rossa e il servizio quello bello”.
 Rifaccio tutto daccapo traendo forza dal mio compassato mutismo Zen. Mentre sto piazzando i tovaglioli come mi ha insegnato la mia dolce metà, mi passa di fianco Marta, nello stato di famiglia risulta essere mia figlia.
 “Ciao papi, ti ha detto la mamma che per capodanno non ci sono? Vado in settimana bianca con le amiche”.
E se ne va, sculettando come una Lolita, solo un po’ più perversa, verso il bagno. No, non lo sapevo, come sempre quando si tratta di mia figlia, si mette d’accordo con la madre e poi mi fanno sapere cosa hanno deciso nel momento in cui firmo l’assegno che paga le sue spesette. A ciascuno il suo ruolo. Dopo essermi rasato e lavato mi vesto con quello che mia moglie mi ha disposto ordinatamente sul letto, che se fosse per me mi metterei la tuta, che si sta così comodi; anche vestito e ripulito non sono un granché.
 “Dai non perdere tempo a rimirarti nello specchio che lo impressioni e si incrina.  Devi andare in cantina a prendere l’acqua, l’abbiamo finita”. E certo, perché sporcarsi le mani è roba mia no? Sfilo le dita bagnate dalla presa di corrente del bagno e vado. Poco dopo iniziano gli arrivi, mia suocera e mio suocero, agghindati come ricchi alberi di Natale, solo un po’ troppo kitsch. A lui, appena messo piede in casa, scappa un rutto alcolico che fulmina all’istante due lampadine e la ventola della cappa, è già mezzo sbronzo, come lo capisco, con la moglie che si ritrova, lei invece mi ha già attaccato, con quella vocina che metterebbe la pelle d’oca ad Hannibal Lecter.
 “Non ti decidi mai ad attaccare le mensole nella cameretta dei ragazzi, e poi in sala c’è poca luce, perché non cambi quello schifo di lampadario? Sarà anche moderno ma non fa per niente luce”. Quando arrivano anche i miei genitori sono in cucina, esausto come l’olio motore di un camion dopo trecentomila chilometri, me ne sto con la canna del gas in bocca ancora un po’ indeciso sul da farsi; dalla porta a vetri si affaccia il volto sorridente di mia madre.
 “Ciao caro, cosa stai facendo ? che aria stanca che hai ? stai bene?”.
 Mio padre.
 “Tu lavori troppo figlio mio, dovresti goderti di più la famiglia”.
Ma se è la famiglia che mi fa invecchiare di una settimana ogni cinque minuti. Mi alzo da lì, un bacio in fronte alla mamma, una pacca sulla spalla al papà, usciamo dalla cucina che sa di fritto peggio di una kebab turco e andiamo in sala. Vedo mio suocero che, andando verso il bagno barcollando, dà una sonora manata sul culo alla moglie che lo manda a quel paese con un Carlomavavanguloemettettitilemanineltuoculo, e penso, che bello vedere quanto sono ancora innamorati dopo tanti anni. E che dire di mia madre, che un secondo dopo che mio padre si è acceso una sigaretta, di quelle mortali senza filtro, lo rimbrotta con un fumafumachemuoriemilibero; già, l’amore è davvero una cosa meravigliosa. A tavola, finalmente tutti insieme come la bella famigliola felice della casa nella prateria, ma senza prateria. Ci passiamo le lasagne e il risotto con la salsiccia, l’arrosto e il cotechino, le patate e l’insalata russa. Loro chiacchierano di non so cosa, mio suocero credo stia per avere un infarto, è paonazzo in volto e ogni tanto intona una canzone degli alpini alzando il calice di vino, i miei figli parlano tra loro, usano parole in codice, non capisco niente di quello che si dicono, mia madre ogni tanto mi guarda e scuote la testa con aria rassegnata, mio padre riflette sui misteri della vita, tipo, perché lo chiamano sacco a pelo se all’interno ha le piume d’oca? Io mi sento a mio agio come una pianta grassa in Alaska. Mi alzo, vado in balcone e mi metto in piedi sul parapetto, barcollo in un equilibrio precario come il contratto di uno stagista, guardo di sotto e sento un senso di libertà invadermi come un’onda, ripenso al mio sogno, a quanto sarebbe bello tornare indietro, essere di nuovo giovane. Sposarsi con una donna splendida ed esserne perdutamente innamorato. Poi una voce mi distoglie dal nirvana nel quale mi ero immerso.
 “Si può sapere cosa stai facendo, la mamma vuole rivedere le vecchie foto della comunione di Luca, sono in uno scatolone cima all’armadio, valle a prendere, e scendi da lì, non fare lo scemo”.
 Scendo da lì; rientro in casa, mi metto le scarpe e indosso il cappotto, nel momento in cui sto aprendo la porta di casa mia moglie mi blocca.
 “Dove stai andando adesso, ma cos’hai oggi sei impazzito ?!”.
 “Vado a prendere le sigarette, torno subito”.
 Fra una settimana, forse, si ricorderanno che non ho mai fumato in vita mia.

lunedì 21 maggio 2012

I Miei Corti - Poco ?

Poco?

“Guarischi papà”. La scrittura è infantile, le lettere si rincorrono disordinatamente, quasi non sapessero bene se si trovano nel posto giusto, incerte sul significato che così disposte vanno a formare, una h dispettosa è scivolata furtiva tra la c e la i; due semplici parole scritte in rosso che danno un senso di un amore senza confini.
Luca non riesce proprio a concentrarsi oggi, è la quarta volta che rilegge quel pezzo di carta posato davanti a lui e ancora non ha capito di cosa diavolo si tratti. Sente gli occhi di Lucia, seduta di fianco a lui, scrutarlo con attenzione, alla ricerca di un  indizio che le spieghi qualcosa circa la metamorfosi del suo collega, di solito chiuso e silenzioso come una chiesa il martedì mattina.
 Forse sarebbe stato meglio stare a casa, è che aveva bisogno di uscire, respirare quell’aria inquinata e sentire il cielo plumbeo sopra la testa, ascoltare il mesto canto di uccellini imprigionati dalla città caotica e malata, aveva bisogno di stare un’ora in coda per fare gli otto chilometri che separano casa sua dall’ufficio, in mezzo a clacson e insulti in dialetti che testimoniano, senza bisogno di sondaggi milionari, quanto Milano sia una città multietnica.
 Aveva bisogno di camminare su marciapiedi luridi, di compatire quegli alberi anemici e tristi. Un bisogno fisico di attraversare il male, il dolore, il disgusto quasi. Tutto ciò che per tanto tempo è stato sempre uguale, sempre fine a se stesso, la solita insulsa vita, sterile come un campo seminato a sale.
 Una necessità lacerante, con radici profonde come le rughe intorno ai suoi occhi chiari, oggi finalmente accesi di vitalità come fari di un porto sicuro. Oggi sa che  tutto quanto lo circonda è bello, di più, fantastico, niente può avvelenargli l’anima oggi. Seduto al suo posto, in ufficio, sfodera un sorriso sornione, accogliente come una baita di montagna quando fuori c’è tempesta, i colleghi intorno sono gentili e simpatici come non mai, anche Mario, il suo capo che non gli dà un aumento da quando c’erano ancora le lire, oggi è simpatico pure lui.
 Ogni tanto il braccio fa male, la frattura è fresca fresca, ma è un dolore che dà calore, sprigiona endorfine che riempiono cuore, stomaco, cervello lasciando una sensazione di benessere e di eccitazione.
 Luca si è alzato in silenzio questa mattina, ha dato un tenero bacio sulla fronte alla moglie, l’ha lasciata dormire, di un sonno profondo, rilassato, finalmente gli occhi delicatamente chiusi danno la sensazione che abbia trovato un luogo denso di pace, un posto tanto anelato. Un giardino dove la pace ti pervade e ti avvolge, come uno stampino nel quale hanno versato un budino alla crema prima che si solidifichi. Si è vestito al buio, poi è entrato nella cameretta di Jamà, dormiva anche lui, il respiro regolare, un sorriso felice sul volto rotondo; stava sdraiato su un fianco, le mani giunte, le gambe rannicchiate.
Vicino a lui, sul cuscino, la sua vecchia e malridotta bambola di pezza, quella che teneva sotto braccio quando è arrivato. Il suo unico bene, la sua ancora di salvezza, il legame con la sua casa, la sua terra.
 Luca apre il cassetto della scrivania, dentro ci mette la relazione che tiene tra le mani oramai da quasi un’ora, la leggerà domani, tutto ha acquistato un’importanza relativa, niente, dopo ieri, sarà più come era prima.
 Ritorna col pensiero a dieci mesi prima, al pomeriggio dell’arrivo di Jamà. Erano, lui e Marta, all’aeroporto, faceva caldo fuori, mentre dentro la grande sala l’aria condizionata regalava una frescura artificiale. Jamà era così piccolo, un fagottino scuro tenuto per mano da quella donna un po’ troppo altezzosa, un’assistente sociale dolce e sensibile come la signora Rottermaier.
 Sono seguiti mesi difficili, le parole imparate da Luca e Marta, per cercare un dialogo col bambino, infrante come bicchieri di cristallo sulla corazza difensiva del piccolo profugo. Un bambino che aveva visto e vissuto quello che nessun essere umano dovrebbe vivere mai, due occhi grandi, scuri e profondi come pozzi di una disperazione assoluta, un cuore fermo come un orologio senza carica, eppure vivo, vivo in una terra di morte. Poi, lentamente, col passare delle settimane la comparsa di qualche parola spizzicata, piccoli timidi sorrisi malinconici, i primi pasti con appetito. Ma nessun contatto fisico, esisteva tra di loro una barriera invisibile ed impenetrabile, la fiducia in quegli strani esseri gentili dalla pelle bianca che non vuole arrivare.
  Lo sapevano che l’adozione li avrebbe messi duramente alla prova, ne erano consapevoli, ci avevano pensato a lungo prima di decidere, poi la scelta, definitiva. Lo avrebbero fatto, avrebbero accettato la sfida.
E poi i dubbi, le incertezze, la paura di aver sbagliato tutto con quel piccolo orfano di guerra si erano impadroniti di loro di fronte ai tanti fallimenti, soffocanti come ragnatele di una casa tenuta troppo a lungo chiusa. I troppi pianti silenziosi di Marta, chiusa in bagno per nascondere l’angoscia al suo piccolo ospite. La depressione è un gatto che ti graffia all’improvviso lasciando nell’anima solchi incancellabili e dolorosi.
 Luca sorride ancora ripensando al giorno prima, una domenica come tante al parchetto sotto casa, quattro tiri ad un pallone senza entusiasmo, Marta seduta sul plaid sotto una betulla ad osservare ammirata i suoi due grandi amori. Il cane, grosso come un furgone porta valori che attacca all’improvviso, puntando deciso verso il collo di Jamà, lo scatto di Luca, perentorio, la lotta con l’animale, le grida, il pianto, la sirena, l’ospedale, la paura.
 La sera, a casa, sono tutti e tre seduti sul divano dal tessuto colorato, il bimbo seduto in mezzo all’uomo e alla donna, avvinti dalle immagini della televisione.
 Guardano “Gli incredibili”, sarà la quarta volta questo mese, a Jamà piace tanto.
 Stanno in silenzio, ognuno immerso nei propri pensieri, ancora spaventati per quanto è successo e allo stesso tempo sollevati per come è finita. Jamà d’un tratto si gira verso Marta, la osserva per qualche secondo, si allunga verso di lei e le dà un bacio sulla guancia, poi si alza e corre nella sua cameretta, con le pareti dipinte coi colori caldi che gli ricordano la sua terra, lasciando i due imbambolati.
 Torna tenendo in mano un pennarello rosso, afferra delicatamente il braccio ingessato di Luca, lentamente, con la fatica dipinta sul volto, scrive qualcosa, due parole un po’ sghembe. Luca e Marta leggono la scritta rossa sul gesso bianco, si guardano con un misto di commozione e stupore, Jamà li osserva coi suoi occhi grandi, sorride.
 Si rimette a sedere sul divano, in mezzo a loro. Sorride ancora. A guardarlo bene ha lo stesso sorriso di Luca, lo stesso sorriso di suo padre.

venerdì 18 maggio 2012

Cosa sono i Miei Corti

Tanto tempo fa, in un paese lontano, dentro palazzi grigi e tristi viveva in mezzo a tanta gente strana un uomo, un bell'uomo.
Egli era molto intelligente, aveva un gran fisico scultoreo e si intendeva di molte cose, in particolare spiccava la sua profonda conoscenza del Calcio e delle Parole.
Le parole, queste splendide sequenze di lettere che si rincorrono dall'alba dei tempi per dare forma a suoni dal significato spesso nebuloso.
 L'uomo si diveritva a trovare parole sempre nuove, perchè, come scoprì grazie ad un certo Stiv Muller, suo piccolo collega dell'epoca, ogni parola ha un senso, tranne IMPENTUMBULANTE, che se l'era inventata in quel preciso istante.
Da lì nacque l'idea, "creerò una rubrica, la parola del giorno".
Così, ogni giorno il bell'uomo, che poi tanto bello non era e anche sul fisico scultoreo c'erano notevoli divergenze di opinioni, mandava ad amici e conoscenti la parola del giorno, che  poteva essere: MARMITTA, DISSIMULAZIONE, PEDISSEQUO....e per tutto quel giorno chi riceveva tale parola doveva comportarsi seguendo il diktat che tale termine portava con se.
Non chiedetemi come ci si comporta da marmitta, se non ci arrivate da soli non ha senso per me sprecare parole.
Ma fermarsi ad una semplice parola era per l'uomo dalla beltà sotto la media e dal fisico macilento una sfida poco stimolante così...balenò nel suo cervello dalle dimensioni assai ridotte un'altra idea.
Scriverò dei brevi o brevissimi racconti. Uno ogni giorno. Nel minor tempo possibile.
Da allora iniziarono a spuntare questi brevi racconti.
Ho iniziato a scriverli circa due anni fa e circa due anni fa ho pure finito di scriverli. Sono forse una cinquantina, scritti nell'arco di una mezz'ora; per qualcuno ci ho messo qualcosa in più, per altri un po' meno. Il "gioco" per me è stato buttare giù qualcosa di sensato partendo da una idea molto semplice, frullatami in testa nel tragitto da casa all'ufficio, prima di bere il caffè mattutino coi colleghi.
Qualche ciambella è uscita col buco, qualcuna si è bruciata. Ma io mi sono divertito lo stesso.

I miei corti - Nessuno è perfetto

Nessuno è perfetto.

Calmo, devi stare calmo, ok è la prima volta, il tuo battesimo del fuoco, ma ti hanno spiegato bene come fare, respira cazzo respira, lo sai fare.
 Un rivolo di sudore gli scende lentamente dalla fronte, scivola lungo il naso e va a coricarsi sulle sue labbra, ormai aride come il Kansas in Luglio. Quel sapore che in bocca ha il gusto del sale, ma lasciamo stare Gino Paoli col suo sapore di mare, con il disincanto di una estate balneare anni ’60 e veniamo al nostro uomo, oggi. La maglietta verde è ormai una seconda pelle, il sudore l’ha inzuppata, potrebbe partecipare a miss maglietta bagnata nel bagno Marisa di Riccione, non fosse che in questo momento ha altri pensieri per la testa, e inoltre, diciamoci la verità, Marisa non lo accetterebbe mai tra le concorrenti, ha le gambe troppo pelose.
 Ti serve solo concentrazione e calma, chiudi gli occhi solo per qualche secondo e prendi un bel respiro, è facile,dai, ce la puoi fare.
 Intorno il silenzio è assoluto, irreale, a parte un fastidioso, leggero TIC TAC che aleggia rimbalzando tra le pareti; nella grande stanza con la moquette grigia c’è disordine, sedie ribaltate, fogli per terra, dà l’idea di essere stata abbandonata di fretta dai suoi occupanti. Alcuni personal computer sono accessi, su altri è partito il salva schermo, su uno si vedono due grosse tette in primo piano. C’è un telefono che squilla in lontananza, nessuno risponde, nessuno risponderà. Taci bastardo di un telefono, taci, non vedi che non c’è nessuno ? no certo, e come potresti sei un telefono. Lo sai che parlare da solo non ti fa bene vero? Stai ricominciando con questa storia, stai ricominciando a parlare da solo, lo sai che non è normale, non è salutare. Forse dovrei cambiare lavoro. Non ci sono portato per questa vita, quanto può durare un bluff, quanto ?
 Un piccione leggermente obeso plana sul cornicione della finestra, osserva con fare incuriosito l’uomo in ginocchio, è solo all’interno della grande stanza, non capisce, o forse sì, infatti si alza in volo in tutta fretta lanciando un verso che potrebbe benissimo essere una pernacchia o un addio.
Quando esco di qui, se esco, mi faccio un piccione in salmì, alla faccia della salmonella. Due fili, sono solo due fili, uno rosso e l’altro verde, esattamente quello che mi hanno detto quando hanno trovato sta cazzo di roba. Una bomba, con un bel timer e due fili. Beh, qual è il problema, sono un artificiere, quando c’è una bomba si chiama l’artificiere no?
 Il ticchettio dell’orologio nella scatola zeppa di esplosivo ha un suono sinistro, sembra una campana che suona per qualcuno, per chi suona la campana? Caro Erny, suona per il tristo mietitore, suona.
Filo rosso, filo verde, tagli quello rosso e sta cosa si ferma, tagli quello verde e festeggiamo capodanno con tre mesi d’anticipo, sai che bei fuochi d’artificio e allora cosa aspetti, taglia il filo rosso no? Facile a dirsi, una sciocchezza. Ma io dico, non potevo essere sordo o zoppo o celiaco o un fottuto razzista? no!!! Daltonico, proprio daltonico dovevo essere?

giovedì 17 maggio 2012

I miei corti - Rimmel

Rimmel.

Ricordo ancora bene la mia prima esperienza sessuale. Lei era bellissima, una modella, una modella del postal market. Avevo quell’età in cui le pulsioni sessuali sono così frequenti e squassanti che neanche il consumo forsennato di kinder briosch e chinotto riusciva a mitigare quella smania che mi prendeva fin quasi a tramortirmi. Era in quei momenti disperati che mi fiondavo, circospetto come un guerriero Apache in perlustrazione, verso il cestino dove mia madre teneva le sue riviste : Intimità, Centrini e centrini, Novella 2000. Un ultimo sguardo intorno, per sicurezza, e poi arraffavo, veloce come Orso Grigio, il catalogo della postal market. Beh sì, la modella in questione non era proprio di carne ed ossa, era più sul tipo:  di carta, ecco. Ma dicevo del catalogo, già, proprio lui, quello delle vendite per corrispondenza. Oggi non esiste più, morto e sepolto, come tante cose belle degli anni ’80 e ’90 : le canzoni dei Righeira, i mangiadischi o i gettoni del telefono, le mie spdraillas rosse.
 Ma tornando alle mie peripezie, non posso nascondere la difficoltà nel maneggiare tale rivista, ingombrante come il sussidiario delle elementari, non era affatto facile nascondersela addosso, arrotolata sotto la maglietta per esempio, sembrava avessi ingoiato un manganello della polizia.
 No, non si poteva tenere così, non sarebbe servito a niente sarebbe stata comunque troppo evidente.
 Ma il vero problema era che quello che interessava me, ovvero il reparto intimo femminile, aveva solo foto del pezzo in esame, dei primissimi piani, e io, beh, io sono sempre stato uno romantico, cioè avevo bisogno di vederle in faccia quelle splendide modelle, avevo bisogno di “vederle” nella loro interezza, un solo pezzetto non mi dava soddisfazione, o meglio, me la dava ma io volevo di più. E qui arrivavano i veri problemi.
 Dunque, mi servivano i volti , pagina 4, sezione dedicata ai cappelli, belle ragazze sempre sorridenti coi loro denti bianchissimi. Poi giù : il seno.
 Pagina 25, sezione reggiseni, mmmhh quante belle tette sode: allungate a pera, piccole ad albicocca, rilassate a coppa…del nonno, generose a panettone, le mie preferite, senza canditi ma con l’uvetta.
 Scendendo ancora, arrivavo alle mutandine, pagina 40. Quelle trasparenze che mi lasciavano senza fiato in evidente stato di affanno neanche avessi corso un’ora, quando si intravedeva quel meraviglioso alone scuro sotto il pizzo delicato. Poi c’era la foto del dietro, cioè la modella presa dal lato B e quello era un altro spettacolo. A mandolino greco, a porta bici, a cupola del Brunelleschi. Forme perfette, momenti perfetti, perché la perfezione esiste e dimora soave nelle curve delle donne.
 E poi mi fiondavo ancora giù, collant e autoreggenti, pagina 55. Gambe lunghe, tornite, avviluppate da calze di ogni foggia e colore. Me le immaginavo pronte ad avvolgermi come un caldo maglione di lana. Il collage era pronto per essere assemblato; il fatto è che dovevo tenere in mano sto libro, perché vi assicuro che era più ingombrante del mio libro di educazione tecnica, cercando di vedere contemporaneamente faccia tette patata sedere gambe, fotografate su pagine diverse, era davvero un’impresa da saltimbanco del circo Togni.
 Magari mi soffermavo su una bionda dalla bellezza algida, con un seno abbronzato color miele, il tutto poi alle volte non c’entrava molto con il colore di quanto trovavo più sotto, cioè intendo sotto lì insomma, chiaro il concetto no ?
 Mi creavo, con la mia spensierata ingenuità giovanile, delle incongrue Frankestein, col fine ultimo di dare un po’ di conforto alle mie tribolazioni ormonali. Più che altro era uno sforzo di fantasia nel quale l’abilità della componente manuale, e non mi riferisco alla mera auto soddisfazione in questo caso, ma parlo proprio di tenere tra le mani il volume aperto su più pagine contemporaneamente, giocava un ruolo fondamentale.
 Oltretutto non è che potessi chiudermi in bagno per ore, dovevo anche essere celere onde evitare le chiamate di mia madre, che mi avrebbero per lo meno spezzato la poesia e anche altro...
  “Hai finito? ma si può sapere cosa stai facendo lì dentro ?”.
 Potevo dirle che mi eccitavo sfogliando il suo postal market ? potevo ? no cazzo, non potevo. Già non ero un granché a scuola, non andavo all’oratorio come facevano invece la maggior parte dei figli delle sue amiche, fisicamente ero più sul genere simpatico che sul bello, cosa dovevo fare a quella povera donna ? volevate che la uccidessi confessando che ero anche uno schifoso perverso adoratore di donne fatte a pezzi?
 No di certo, era mia madre e le volevo bene, non volevo mica farla morire di crepacuore. E allora in fretta e furia immagazzinavo le ultime immagini delle mie creature puzzle, chiudevo quella mappa del piacere e sgattaiolavo fuori, agile come un guerriero Sioux dopo una perlustrazione, che per me i guerrieri indiani sono tutti uguali, tutti magnifici e immortali.
 Rimettevo a posto la rivista, mia croce e delizia e prendevo un bel respirone da monaco shaolin, poi magari andavo a giocare a Subbuteo in camera mia. Obnubilando i pensieri sconci di poco prima con derby titanici tra Milan e Inter.
Ecco, io ho iniziato così, e qualcosa di quei bei tempi mi è rimasto appiccicato addosso come carta moschicida, anche adesso che ho superato i quaranta da un pezzo.
 “Andrea sbrigati che è pronto a tavola, sei ancora in bagno ?”.
 Adesso devo proprio andare, mi sono perso un’altra volta nei ricordi, il tempo di togliermi di dosso mutande di pizzo e reggiseno, struccarmi di rossetto e rimmel e sono fuori. Se no chi la sente quella. Ma in fondo lo sapevo che le donne sono tutte uguali, prima a chiamarmi era mia madre, ora….beh, ora è mia moglie.

I miei corti - Qui Pro Quo

Qui Pro Quo.
Il commissario Bini cammina velocemente, mani affondate nell’impermeabile grigio topo, colletto alzato alla Marlowe, testa incassata fra le spalle un po' curve, fa freddo, molto freddo. Avrebbe dovuto mettersi il giubbotto pesante ma, come sempre, la fretta di uscire glielo ha fatto passare di mente, e poi è affezionato a quel vecchio straccio, ne hanno passate tante insieme.
 Il rumore dei passi sulle mattonelle, rese bagnate e scivolose dall’umidità della notte, rimbomba sinistro sotto i portici ormai deserti. Solo alcune coraggiose biciclette, coi loro grossi ed inutili lucchetti, fanno compagnia alla camminata decisa del vecchio poliziotto. Un’altra giornata è passata, il caso del serial killer dei barboni, o come si dice alle conferenza stampa, di clochard, rimane un fascicolo tristemente aperto sulla sua scrivania, piena di scartoffie come l’ufficio postale è pieno di vecchi il giorno del pagamento della pensione. In entrambi i casi una scocciatura per chi ce ne ha a che fare.
 Basta, ne aveva abbastanza di tutto, ancora pochi giorni e sarebbe entrato in ospedale, aveva paura, una paura fottuta. Non capitava tutti i giorni di farsi cambiare il cuore, e lui al suo ci era particolarmente attaccato, anche se, a dirla tutta, ormai perdeva colpi un po’ troppo spesso. Il Dottor Canuti, un luminare, il numero uno nel Paese lo avrebbe operato e tutto si sarebbe sistemato. Ne era sicuro, voleva esserne sicuro. Del resto gli avevano spiegato che pochissimi chirurghi al mondo sarebbero stati in grado di fare quel genere di intervento.
 Già, perché non si trattava di un semplice togli e metti, no, c’era molto di più. Cosa ? glielo avevano spiegato mille volte e mille volte ma non lo aveva capito. Quel che sapeva era solo che senza quella operazione non avrebbe visto il prossimo capodanno, ma il Dottor Canuti, stringendogli la mano, lo aveva rassicurato con quel suo sguardo sicuro e glaciale, e quelle poche parole quasi recitate in modo enfatico. “Stia tranquillo, ne uscirà come nuovo, anzi, tornerà un ragazzino, mi creda”. Che poi sarebbe andato bene anche un uomo maturo, un ragazzino sarebbe stato chiedere fin troppo, pensò con un sorriso appena accennato il commissario.
 Mancava poco alla fine della sua camminata  e sarebbe arrivato a casa, ancora pochi passi e poi avrebbe abbracciato finalmente il caldo tepore del suo nido sicuro. Sua moglie Anna sicuramente lo stava aspettando in piedi, nonostante l'ora tarda, dopo quasi trent’anni di servizio, sempre la stessa storia, non si era ancora rassegnata all’idea del pericolo del lavoro del marito. Non si addormentava mai se il suo uomo non era in casa, lo avrebbe aspettato sveglia fino alla fine del mondo se fosse stato necessario. Poi all'improvviso un grido, sommesso, sordo, un campanello d’allarme scattò nel cervello allenato del commissario Bini, la mano alla pistola d'ordinanza, l’orecchio teso. Un altro rumore, un altro gemito. Più vicino stavolta.
 “Fermo, mani in alto”.
 Un uomo, vestito di nero con un cappello a tesa larga è  accovacciato su un barbone ormai immobile, ucciso. La pistola, ferma nella mano del commissario è puntata verso l’uomo dal cappotto nero e il cappello che ne nasconde le fattezze.
 “Mani in alto, non fare gesti strani o sei un uomo morto”.
 La voce è affettata, forte e chiara, il commissario è certo di avere di fronte il killer dei barboni, quel maledetto assassino che si diverte ad andare in giro a sgozzare poveri derelitti innocui ed indifesi. L’uomo col cappotto nero si volta in direzione della voce, lo squadra da capo a piedi poi parla, con una voce asciutta come un rigagnolo in piena estate.
 “L’ uomo morto sei tu”.
 E poi ride, ride forte, il commissario non capisce cosa abbia da ridere adesso quel pazzo. E poi quella voce, quella voce. È solo un attimo di sbigottimento, un secondo di smarrimento nel quale la pistola si abbassa di qualche centimetro e il killer ne approfitta, gettandosi contro l’uomo coll’impermeabile grigio topo. Un lungo coltello getta un riflesso bianco nella notte, è sbucato all’improvviso nella mano destra dell’assassino. La pistola spara. Il colpo è uno solo, preciso, in piena fronte, fatale.
 Il killer dei barboni è sdraiato sul selciato, immobile. Un rivolo di sangue macchia di scuro l’asfalto bagnato. Il commissario Bini rimette la pistola nella fondina, non ne ha più bisogno, sa riconoscere la morte quando la vede negli occhi. Fa due passi verso il killer, si china, scosta il cappello, rimasto accanitamente attaccato alla testa dell’uomo, lo osserva al chiarore freddo di un lampione che sparge riflessi algidi sul selciato. Un brivido gli corre lungo la schiena, lancia uno sguardo confuso intorno a se, alla notte rimasta muta, alle biciclette silenti, spettatrici loro malgrado, della breve e terribile violenza appena consumata. Poi tutto torna avvolto da un silenzio lugubre.
 “Pronto, ciao, sono il commissario Bini, manda una pattuglia e un paio di ambulanze in corso Italia. Ho appena ucciso il killer dei barboni, ho appena ucciso il Dottor Canuti”.
 E lui ha appena ucciso me. 

Farfalle a Milano


Ecco, iniziamo dalle cose semplici. La copertina del romanzo.
Come nasce ?
L'editore mi scrive una mail: "ci devi fornire una copertina, o ne hai una tua o ne puoi scegliere una tra quelle del nostro Data Base".
Io ho cercato dentro di me, ma non ne ho trovate. Il loro Data Base contiene 1000000 di foto, non ne trovo neanche una che mi piaccia...e le ho guardate tutte!
Ah, dimenticavo, l'immagine la volevano entro 4 giorni.
Ad un tratto so esattamente cosa fare, a chi rivolgermi per risolvere questo problemuccio, al mio amico Olivier.
Lo chiamo, lui ha letto il manoscritto e quindi conosce la storia.
Gli spiego a sommi capi come vorrei che fosse l'immagine, mi dice "non so se ce la faccio, sono anni che non disegno, non ho molto tempo libero".
Gli dico, cercando di nascondere  le lacrime da coccodrillo che mi solcano il viso copiose : "Ti prego, mi serve entro 3 giorni".
Mi risponde "eh che cazzo! e poi ? ti devo anche lavare la macchina?".
E inizio a temere di averlo perso e ancora peggio, ho paura che voglia farmi del male, non è un caso che Olivier sia conosciuto dai più con il simpatico pseudonimo di Psycho.
Gli offro in cambio del disegno una moto sega da mostrare come benvenuto ai testimoni di Geova quando suonano alla sua porta e un week end romantico per due a Mortara.
Mi bestemmia dietro qualcosa in fiammingo e chiude con "vedo quello che riesco a fare....".
Tre giorni dopo ho l'immagine della copertina.
Grazie Oly, sapevo di poter contare su di te.
Per quanto riguarda invece la genesi del romanzo è tutta "colpa" di un'auto, una maledetta Ford Taunus, vecchia come i miei denti da latte, che ho visto parcheggiata lungo una strada mentre andavo al lavoro.
E' stato un attimo, all'improvvismo mi si è materializzata nella mente un'immagine e con quella apro il romanzo. Esattamente come l'ho "vista" in quel breve stato di trance in quella fredda mattina di un anno e mezzo fa.
Il resto della storia è venuta da se e spero sia di vostro gradimento.

ho perso la verginità

Ciao sono Davide e questo è il mio primo post.
Perché ho deciso di “farmi” un blog, ma soprattutto cos’è un blog ?
La prima domanda è semplice, perché sono uno scrittore, attenzione, non ho detto che faccio lo scrittore e soprattutto non ho messo alcun aggettivo davanti al sostantivo scrittore, anche perché non so cosa sia un aggettivo e anche sui sostantivi ho dei forti dubbi, ma sento dentro di me che usare certi termini conferisce quel tono da intellettuale che…che non mi calza per niente.
Dicevo del mio essere scrittore, non sono sicuramente uno di quelli bravi, di quelli che giocano con le parole sistemandole abilmente in frasi ad effetto. No, non ne sono capace, quello che scrivo è semplice, non vado alla ricerca di termini per i quali dovrei andare a cercare nel vocabolario il significato,  non ce l’ho il vocabolario !!
Sono uno scrittore perché scrivo, come potrei dire che sono un ciclista perché con la bella stagione vado al lavoro in bici, questo non fa di me Miguel Indurain.
Scrivo delle storie, non saprei individuare un genere, faccio fatica a catalogare quello che scrivo, mi viene un’idea, cerco di metterla un po’ in ordine nella mia testa e poi la butto giù, nero su bianco.
Quello che viene fuori sono degli scritti più o meno riusciti, ed è quello che troverete da qualche parte in giro per questo blog, che potrebbe essere sconclusionato e disordinato, perché tornando all’inizio di questo post  e  in particolare alla seconda domanda, io non lo so cos’è un blog.
Ma siccome sono uno che quando si mette…ho letto che devo gestirlo tipo un diario, solo che è un diario pubblico. A parte il fatto che io un diario non l’ho mai avuto, perché dovrei rendere pubblico quello che scrivo ? e quindi mi ci sono appena messo e già vorrei cancellare tutto. Ma vado avanti fiducioso.
Ok, vediamo perché dovrei aprire agli occhi del mondo quello che scrivo. Perché, mi hanno detto degli amici: “se non hai un blog non sei nessuno, come puoi farti conoscere come scrittore se non hai un blog?”.
“Quanti abitanti ha l’Ecuaduor? Il logaritmo in base 10 di 7531 ? se porti il sapone liquido al Polo Nord  la mattina dopo ti trovi una saponetta ?
Insomma a volte gli amici ti fanno di quelle domande che spesso vorresti cambiare amici.
Mmhhh, però in effetti forse non hanno tutti i torti, la mia visibilità è pari alla Via G. Verdi al civico 5 a Ferrara.
Avete presente ? no ? ecco, esattamente quello che dicevo.
E allora eccomi qui, ho imparato quattro cose per creare questa pagina, praticamente mi è bastato pigiare sul bottone grosso e arancione con la scritta CONTINUA, inizierò presto a metterci sopra le miei cosine, tutto per farmi un kilo, un kilo e mezzo di pubblicità.
Pubblicità di che ? dei miei romanzi, ed in particolare del secondo : Farfalle a Milano.
Cercherò di non fare troppi danni e spero di riuscire a strappare qualche sorriso, lacrima, ghigno, rutto, dente a tutti quelli che passando di qui vorranno leggersi qualcosa di quello che scrivo.
Poi dovrò anche imparare a come far scrivere voi nel blog, così potrete dirmi tutto, o quasi tutto,  quello che pensate dei miei umili scritti.
Ciao, a presto.
Davide