venerdì 18 ottobre 2013

I miei Corti - Tristezza apparente

Ero in macchina, stavo tornando a casa da non so dove, lungo il naviglio. ho alzato lo sguardo verso uno dei tanti palazzoni che si affacciano sulla Ludovico il Moro. In un balcone, uno dei tanti, c'era una sedia di legno, bianca. Ho "visto" questo breve racconto. LaSimo ha pianto dal ridere mentre mi diceva che è una delle cose più tristi che abbia mai letto, lo spirito con il quale l'ho scritto è esattamente l'opposto. A volte l'interpretazione...
Eccolo, il titolo mi è uscito adesso.


Sul balcone c’è una sedia. È una sedia bianca e rosa.

È rivolta verso il muro di destra. Vuota. Il balcone è piccolo, angusto, vuoto, a parte la sedia. A destra e a sinistra due muri grigi e sporchi ne delimitano lo spazio, soffocandolo. Davanti, il parapetto di ferro smaltato, grigio anch’esso, è macchiato qua e là di ruggine. Il balcone si affaccia verso un cortile interno. Il cortile è un imbuto stretto, buio, nero. Su di un lato sono posizionati i bidoni della spazzatura, allineati come soldati. Una siepe spelacchiata dovrebbe nasconderne la presenza. Il cortile è chiuso su tre lati dal palazzo, nel quarto lato c’è un muro alto quattro metri, grigio. Come fosse solo appoggiata al muro, una piccola costruzione con una porticina aperta e due finestrelle risuona di un fischiettio allegro. Davanti alla casetta legna accatastata, seghe, martelli, lime, raspe. Alcuni oggetti di legno finemente lavorati. Da sopra il muro si intravvede la punta timida di un larice. Oltre l’idea dell’albero altri palazzi, alti, grigi e neri. Impongono la loro presenza silenziosa e tetra. Il cielo è un foglio bianco, fa caldo e non c’è un filo di vento.  Rumori indistinti escono dalle finestre aperte del palazzo. Sono grida, sono risate, sono pianti, sono poesie. 

 Sul balcone c’è una sedia, sulla sedia una bambina. La bambina ha cinque anni. Muove le sue piccole manine sul muro a pochi centimetri dal suo naso. Canticchia sottovoce una canzone. Un fischio improvviso la distoglie dalla sua occupazione. La bambina guarda verso il basso, da dove proviene il fischio. Un uomo sorridente le fa un cenno con la mano mandandole un bacio. Lei fa altrettanto. L’uomo è uscito dalla casetta di legno, è una piccola falegnameria. Poco dopo l’uomo è sul balcone,  in braccio tiene la bambina, guardano verso il muro del balcone. Poi si guardano tra loro, ridono soddisfatti.

“E’ pronto in tavola, venite dentro !”

 Sul balcone c’è una sedia bianca e rosa. La sedia è vuota. Davanti alla sedia il muro. Sul muro un disegno, fatto con i gessetti. Un sole giallo risplende su tre figure stilizzate. Le facce sono dei cerchi approssimativi, la mezzaluna in basso è un sorriso radioso, gli occhi dei bottoni blu, i capelli dei lunghi fili colorati. Gambe e braccia righe nette,  rosa. Intorno a loro fiori grandi come case, alberi di ogni forma e colore affollano lo spazio. Farfalle svolazzanti, nuvole azzurre sfilacciate, uccelli rossi e viola. Un laghetto nel quale nuotano dei pesci fucsia, un sentiero che si perde in lontananza.

L’uomo torna sul balcone, dà un’altra occhiata sorridente al muro poi afferra la sedia bianca e la tira verso di sé, le sue quattro ruote girano silenziose lasciandosi  trascinare dentro l’appartamento.
Sul balcone non c’è nessuna sedia bianca e rosa. Tre figure, due più grandi e una piccola, sono immerse in un paesaggio da fiaba; dove forme e colore sono fantastici compagni di viaggio. Dove la fantasia è la felicità di una vita libera e splendente. Le figure umane grandi sono in  piedi, braccia larghe e dita come rami, la figura più piccola è in mezzo a loro, sorridente, li tiene per mano. In piedi.

mercoledì 4 settembre 2013

Regalo

Ciao a tutti,

ho deciso di mettere online, quindi disponibile a tutti, un romanzo che tenevo nel cassetto da un po'.
Come spesso mi accade non saprei definirne il genere, quello che scrivo di solito lo considero solo una storia. A volte fanno sorridere, a volte piangere, a volte non lo so. Quello che conta davvero è che quello che ne viene fuori riesca a far nascere almeno un'emozione in chi legge.
Questa storia nasce su suggerimento di "Abracalabria", un amico, ma che dico amico, un ex collega di Siemens. Un calabrese, e ho detto tutto. In realtà quando ha letto il romanzo mi ha riempito di critiche e si è praticamente chiamato fuori da ciò che era appena nato. Lui aveva ben altre idee, solo che io non sono in grado di scrivere quello che lui pretende. Sono solo un piccolo scribacchino di provincia.
Ora, mi farebbe piacere che tanti di voi scaricassero e leggessero questa mia opera, operetta, operina...questa roba insomma, e poi mi facessero sapere, magari commentando sul blog, quella che è la loro opinione.

Il romanzo si intitola "L'ultima preghiera", potete trovare il link sulla destra, tra i miei romanzi.

Grazie a tutti, care lettrici e fedeli lettori e a presto.
Davide

mercoledì 24 luglio 2013

Il pescatore.


Lo sapeva, se lo sentiva che sarebbe accaduto proprio in quella circostanza, era il momento che aspettava da tempo. Non provava dolore né tristezza, ma solo la fredda consapevolezza di essere arrivato al capolinea, finalmente. Poche ore prima, quando si era svegliato, l’idea di quello che avrebbe fatto quel giorno gli era balenata violentemente nella testa appena aperti gli occhi. Alzandosi con fatica dal letto, sentendosi addosso tutti i suoi settantotto anni, aveva deciso che sarebbe andato giù al fiume a pescare, come faceva fino a qualche anno prima, quando, in compagnia di vecchi e fidati amici, trascorreva serenamente le lunghe giornate della tanto agognata e altrettanto odiosa età della pensione. Aprendo le tapparelle della vecchia casa del paesino sperduto nelle campagne della bassa padana, si trovò di fronte il solito panorama piatto, mosso appena dalla linea ferroviaria ad alta velocità, che negli ultimi anni aveva dato un po’ di brio alle conversazioni davanti ad un bicchiere di bianco al bar.  Il cielo era acciaio che lasciava cadere obliquamente lacrime sottili e timide.  Non aveva avuto bisogno di guardare fuori per sapere che il tempo quella mattina era inclemente, se lo sentiva nelle ossa, che avevano scricchiolato con sinistri clack in ogni giuntura appena messi i piedi per terra. L’artrite è una ruggine spietata che consuma le energie, lentamente, giorno dopo giorno, lotta strenuamente contro la tua volontà di andare avanti fino a trasformarti in una statua, immobile. Ogni movimento ti costa sempre più fatica e dolore.  Ora l’uomo cerca di stirarsi allungando le braccia verso l’alto e piegando il collo da una parte all’altra, con cautela, senza strafare, giusto un po’, per riattivare la circolazione del sangue nell’organismo, per dare una lieve scossa. Per dire “io sono ancora qui, ho ancora bisogno di te, caro vecchio e stanco corpo”.

L’aria non è particolarmente fredda, l’autunno quest’anno sta regalando giornate dalle temperature miti. Sarà colpa del riscaldamento globale, che a dirla tutta a lui qualche grado in più non ha mai fatto male, anzi. Respira a pieni polmoni il dolce profumo dell’erba bagnata, inspirando col naso, poi chiude la finestra, esce dalla camera da letto e cammina verso la cucina. Mette a scaldare il latte mentre si prepara il caffè  nella piccola caffettiera da uno. Dallo scaffale di fianco al lavandino prende le fette biscottate che immergerà nel caffelatte, ha rinunciato a tante cose col passare degli anni ma a quello proprio non riesce a fare a meno, il gusto della fetta che si imbeve di latte è un piacere che non può negare al proprio palato. Dopo la colazione va in bagno, si lava e si fa la barba, come ogni mattina, anche se ormai cresce pochissimo e si vede giusto un’ombra grigia sotto il naso e sul mento. Si guarda allo specchio, gli occhi di un verde chiaro, leggermente velati dall’età, lo osservano con quella pacata serenità di chi nella vita si è sempre comportato seguendo le regole. Ubbidendo al conformismo e ai canoni imposti dal vivere in un piccolo paese. Del resto a lui non è mai costato grande fatica, i suoi genitori lo avevano educato al rispetto verso se stesso e verso gli altri, senza compromessi. Una vita limpida, senza macchie, senza inutili voli pindarici e grandi sogni irrealizzabili, che possono permettersi solo quei fortunati nati nelle famiglie ricche.

Un matrimonio riuscito, un figlio di cui andare fieri. Il lavoro nella bottega paterna come calzolaio. Gli amici del bar Centrale. La vita che, placidamente, scorre via. Felicemente ? Sì, felicemente, perché anche sapersi accontentare di quello che si ha è un pregio, un dono del Signore e va custodito gelosamente e con parsimonia. Poco dopo è indaffarato nella preparazione della cassetta per la pesca, nella quale sta controllando che tutto sia in ordine : le lenze, gli ami, le pinze, il coltellino. Prende dallo sgabuzzino il secchiello giallo, che spera di riportare a casa pieno di pesci. Dall’armadio sfila la giacca senza maniche color verde scuro zeppa di tasche di ogni misura, è stato un regalo di lei. Ricorda il giorno in cui Teresa, sua moglie, gliel’ha fatta trovare ben stesa sul divano a due posti in sala. Era il suo compleanno, era così giovane e in gamba allora. Compiva sessant’anni e loro due erano già sposati da quasi quarant’anni. Torna in cucina per prepararsi un panino al prosciutto cotto e versa in una bottiglietta di acqua, già piena per metà, un po’ di vino fino a riempirla. Prende il cappellino, quello che indossa sempre in queste occasioni, lo mette in testa, prende la cassetta ed esce di casa dopo aver dato un ultimo sguardo all’appartamento silenzioso.

Il viaggio con la vecchia utilitaria è breve e si svolge nel silenzio della campagna che sta ancora riposando. Non c’è molto da fare in giornate come questa. Anche di macchine in giro ce ne sono poche.

Un’ora più tardi è seduto nella sua seggiolina ripiegabile, la canna da pesca tenuta mollemente tra le mani, lo sguardo sull’acqua verde del fiume che passa lenta sotto i suoi occhi. Qualche uccellino che vola via cantando malinconicamente. I ricordi che si presentano alla porta della memoria senza invito. Un sorriso malinconico. La vita.

Il primo pesce della giornata lo coglie impreparato, il galleggiante scompare per un attimo sotto il pelo dell’acqua, è una lotta impari ma a giudicare da quanto tira la lenza deve essere un barbo, i pesci più combattivi della zona. L’uomo gioca col mulinello, avvolge e lascia, dà tregua per qualche attimo e poi tira con determinazione, la forza del pesce diminuisce, la battaglia è finita, viene sollevato dall’acqua. Un guizzo, due colpi di coda, qualche schizzo d’acqua. Guido stacca con delicatezza l’amo dalla bocca del pesce, che sembra lo guardi con rabbia, con aria di sfida, e lo depone nel secchio giallo.

“Luigi ci facciamo un goccio?”. Ha parlato per la prima volta da quando si è svegliato e lo ha fatto con un vecchio amico. Un amico morto ormai da tre anni. A volte si dimentica di essere rimasto solo. Sfila dal sacchetto di tela la bottiglietta di acqua e vino e prende una sorsata.  La mattina sta scivolando via, nel secchio giallo un barbo e due cavedani si contendono lo spazio nuotando nervosamente.

“Mario, alla fine non ci siamo mai andati verso “il fosso”, dove il Luigi per un pelo ci moriva. Lo sai che dicono che lì ci sono delle carpe spettacolari, ma noi abbiamo sempre avuto timore di scivolare sui sassi. La paura ci ha privato di tante cose. Forse abbiamo giocato male le nostre carte. Forse avremmo dovuto osare di più”.

Il galleggiante in fondo alla lenza affonda ancora una volta, Guido non si accorge di nulla, continua il suo monologo con gli amici di un tempo. Il fatto che non si vedano non vuol dire che non ci siano, che non siano di fianco a lui a condividere ancora una volta una serena giornata di pesca tra amici. Lui li vede, li sente. Percepisce la loro presenza. Una volta ha sentito dire in un film, che si deve pensare ai propri cari morti come se fossero nella stanza accanto alla nostra, non puoi vederli ma sai che sono lì, accanto a te. Questo pensiero col tempo lo ha rasserenato, gli ha ridato la certezza della compagnia di cui aveva tanto bisogno per non impazzire di solitudine.   Si alza dal seggiolino barcollando leggermente, raccoglie la canna da pesca, e si avvia verso quello che lui e gli amici hanno sempre chiamato “il fosso”, una pozza profonda dalla forma circolare, larga circa tre metri a pochi passi dall’argine del fiume, verso il centro del greto.

“Teresa, stasera ci facciamo una frittura che te la sogni. Non ti preoccupare, li pulisco io i pesci, lo so che è un lavoro che non ti piace fare, non ti è mai piaciuto. In fondo in cucina non ti sei mai sentita a tuo agio. A avevi tante altre doti stupende, ma io ti amavo più per quelle che ti mancavano. Ti rendevano più vulnerabile e dolce. Ah, pensavo di invitare anche Mario e Luigi, se la pesca va come immagino ci sarà pesce per tutti”.

L’uomo cammina a testa bassa, stando bene attento a dove mette i piedi, si ferma per un attimo e si guarda intorno, come a voler fotografare quell’attimo, imprimersi nella memoria le forme, i colori, gli odori di quella giornata passata ancora una volta con gli amici di un tempo, a pescare.

Ritorna a quelle giornate lontane, alle risate, alle battute feroci tra loro quando tornavi a casa senza aver preso niente, felice comunque per aver trascorso tante ore liete con i propri amici. Ricorda Teresa, che lo aspettava trafelata, sempre intenta a tenere in ordine la loro casetta, il loro nido, come soleva dire teneramente lei con orgoglio.

Guido è ormai giunto sul ciglio del fiume, fa qualche passo avanti, avventurandosi nell’acqua bassa, verso “il fosso”. Cammina con passo malfermo, la canna nella mano destra, il braccio sinistro tenuto lontano dal corpo, come un’equilibrista che ha bevuto un bicchierino di troppo, procede verso la sua meta.

“Tranquillo Luigi, sto attento. Lo so che è pericoloso, che i sassi qua sotto sono infingardi e traditori. Mario, tu tieni d’occhio il mio secchio coi pesci, guarda che li ho contati, se quando torno ne manca qualcuno ti sfilo il sellino della bicicletta e ti faccio tornare a casa così”. Ride di gusto ora, quella è una battuta che usano tra di loro da tutta la vita, da quando erano ragazzini coi pantaloni corti e correvano per i campi alla ricerca di qualcosa da mangiare, dopo  la guerra. Lentamente arriva in prossimità del “fosso”, getta l’amo verso il nero di quel buco che lo ha sempre intimorito e aspetta. Uno strattone, un altro, un po’ più forte. Risponde al colpo con determinazione, sente un’allegria nuova sfociargli dal petto, sta pescando al “fosso”, ha vinto la sua paura, ha sconfitto l’istinto di conservazione, che con la vecchiaia si è forse assopito, l’ha colto di sorpresa. Fregandolo. Prova a dare un altro scossone tirando a se la canna, ma succede qualcosa.

Un piede scivola su un sasso piatto, l’equilibrista vacilla, si scompone, cade in acqua con un tuffo sordo. Le braccia si agitano nell’acqua scura, un respiro che si interrompe dall’afflusso di acqua che lo coglie all’improvviso riempiendogli la bocca. I vestiti inzuppati sono un’armatura di ferro che tira verso il basso con rabbia. Le braccia si muovono meno, la stanchezza sta prendendo il sopravvento. “Arrivo Teresa, prepara la tavola, tra poco sono da te”. Un altro guizzo verso l’alto, un disperato tentativo di tornare a galla, un respiro profondo, poi la lenta discesa verso il buio.

 “I miei pesci, li ho lasciati nel secchiello, moriranno. Speriamo che qualcuno li trovi prima che muoiano, sarebbe un vero peccato”.
 L’ultimo pensiero di Guido fu per i suoi pesci, gli avevano tenuto compagnia così tante volte, forse era giusto che fossero loro ad accompagnarlo anche nel suo ultimo viaggio, il viaggio verso sua moglie e i suoi amici, verso la pace di un’eternità senza artrite né dolori.

giovedì 9 maggio 2013

Adam Clayton, un gatto, un topo e l'elefante.


Eccoci. Qualche giorno fa mi arrivano a casa le prime cinque copie del nuovo romanzo, me le ha inviate l’editore.

Devo dire che mentre disfacevo il plico non ho provato la stessa emozione della prima volta e forse neanche della seconda. Però tenere tra le mani una tua creatura è sempre un bel momento. Sfogliare velocemente le pagine del tuo lavoro, osservare la bontà della copertina, soppesarne il peso; insomma vedere che quello che fino a qualche mese prima erano solo fogli word sul mio PC è diventato un libro fatto e finito, mi dà una certa soddisfazione.

Anche perché ve lo devo dire, non sono Ken Follet né Stefano Benni. Non è che tutto quello che scrivo vede la luce, anzi. Infatti ho un paio di romanzi che molto probabilmente non verranno mai pubblicati, perciò quando un editore mi dice che è interessato a pubblicare quello che scrivo per me è già una vittoria.

Certo, poi viene il bello, ovvero vendere un milione di copie. Ma questo è, ahimè, un altro discorso. Quel tipo di guerra mi sa che difficilmente mi vedrà vincitore.

Ma forse volete saperne di più sul romanzo. Come è nato e perché, dove e quando.

Ero in vacanza con le mie due donne, la grande e la piccola, in Valsassina. Era il 2008, ed eravamo in estate. Un’estate strana, molto piovosa, almeno nel posto dove stavamo noi. Guardavi in alto e vedevi nel cielo tutte quelle nuvole dalle forme più diverse. Mi sarebbe piaciuto, come facevo da bambino, riuscire a vedere nelle nuvole degli animali, delle persone, dei castelli. Insomma più le guardavo e più mi rendevo conto di quanto col tempo si smarrisca la fantasia, si cambi. E non sempre in meglio, direi. Allora ho pensato che sarebbe stato bello essere di nuovo bambino, per poter rivivere le fantastiche avventure che mi immaginavo da piccolo, poter di nuovo spaziare con l’immaginazione. Ho pensato anche : “chissà se i ragazzini di oggi vedono nelle nuvole quello che ci vedevo io ?”.

No, credo di no. Credo che non abbiano il tempo di guardare il cielo. Sono troppo presi dalla play station,  dalla lezione di tennis, judo, inglese, chitarra, canto, pentatlon moderno. Che senso ha guardare in alto se tutto quello di cui hanno bisogno si trova a terra ?

Ecco perché ho pensato alla storia di un un ragazzino che ha il suo mondo nel cielo. Un luogo lontano eppure sempre presente sopra di noi. Sono sicuro di aver “disegnato” un tredicenne fuori dal tempo, oggi uno così sarebbe sicuramente preso in giro dai coetanei, sarebbe un diverso, ma diverso non vuol dire né peggiore né migliore. Diverso è diverso, punto.  Quindi troverete in Raimondo tanti aspetti che forse sono più vicini alla mia generazione che a quella attuale, ma cosa devo dire, a me piaceva così.

Avevo voglia di raccontare la storia di un giovane uomo alle prese con la vita, con tutti i suoi piccoli e grandi problemi, ma visti con gli occhi ingenui di una volta, non con quelli di coloro che sanno già tutto. O pensano di saperlo.

Quindi ricapitolando, ho detto dove e quando, un po’ il come, manca il perché ? Boh, un artista non è tenuto a spiegare proprio tutto tutto, no ? J
Ah, dimenticavo il titolo. Ho giocato con la famosa canzoncina, con la forma della nuvole e ci ho aggiunto il pezzo da novanta. Che poi, a dirla tutta, il titolo me lo ha suggerito LaSimo.

venerdì 22 marzo 2013

I Miei Corti - Stardust


Ho paura. Cerco di trattenere il respiro e tengo gli occhi chiusi. Come a voler chiudere fuori il pericolo incombente che posso percepire a pochi passi da me. Sento la sua presenza e riesco a pensare solo che domani mattina non ho neanche il latte fresco in casa, avrei dovuto prenderlo prima di rientrare, ma poi le cose sono andate diversamente. Potrei bere il the, anche se un’ora dopo averlo bevuto ho già lo stomaco vuoto, penso con un mezzo sorriso.
I suoi passi sono echi minacciosi di tuoni sempre più vicini, la sua voce è una saetta che potrebbe incenerirmi. Aspetto e prego, o almeno ci provo, non sono mai stato molto bravo in queste cose. È facile chiedere aiuto quando sei con le spalle al muro, è troppo comodo. Sono certo che le mie parole non arriveranno da nessuna parte, sono sbagliate, sono false. C’è della polvere intorno a me, sento che mi sfiora con leggera indifferenza, in fondo tra i due l’intruso sono io. Questo non è il mio posto, non dovrei essere qui.

È stato tutto così veloce, è successo in un attimo, poco fa ero vicino a toccare le stelle con un dito, ora mi trovo nel buio di un abisso senza fondo.
Il pavimento è freddo. Ci appoggio la guancia per trovare un po’ di refrigerio, sento le gote bollenti. La gola secca. Il cuore che batte all’impazzata. Forse è questo che prova un condannato a morte poco prima dell’esecuzione. Non voglio morire, o almeno non così, sarebbe troppo disonorevole, anche per uno come me. Per uno che nella vita ha fatto solo cazzate, questa sa tanto di ciliegina sulla torta.

Già mi immagino i commenti degli amici quando leggeranno la notizia sul giornale, chissà le risate.
E non c’è niente da ridere.

Ora parlano, lui alza subito la voce, lei si difende come una tigre. Cadono insulti come stelle il dieci di agosto, le cose si stanno mettendo male. Continuo a ripetermi che questa è l’ultima volta, ora basta, non voglio più infilarmi in una situazione del genere. Porte che sbattono, urla, piatti rotti, invocazioni profane di  santi e madonne. Forse dovrei intervenire, forse dovrei vivere questa cosa da uomo. Ho deciso, adesso mi faccio avanti, adesso lo affronto.

Poi accade. Lui se ne va’ sbattendo la porta alle sue spalle. Aspetto qualche secondo prima di muovermi. Esco da sotto il letto con gesti goffi, lei mi sta di fronte, mi guarda con sguardo strano.

Mi guardo pure io. Sono in mutande, ma nella concitazione le ho messe al contrario, infatti sembrano un vecchio tanga consumato. Ho indosso una sola calza corta e la maglietta è orrendamente pezzata sotto le ascelle. La tensione gioca brutti scherzi. Cosa mi guarda così a fare ? avrei voluto vedere lei.

“C’è stato un momento in cui avrei voluto gridare in faccia a quel demente che il mio amante era sotto il nostro letto”, mi dice con piglio deciso.

“E io sarei voluto essere al mare a fare i castelli di sabbia”.

“Rivestiti in fretta e vai via, potrebbe tornare da un momento all’altro”.

Mi rivesto alla bell’e meglio, cerco di non guardarla, sono incazzato e ancora spaventato. Quando sono pronto la saluto freddamente.
“Ciao. Per quanto mi riguarda puoi cambiare il letto. Comprane uno col cassettone, non ho più intenzione di nascondermi sotto il letto come un sorcio”.

Con la mano sulla maniglia della porta, mi volto solo un poco per poterla guardare per l’ultima volta, prima di dirle addio.

È bellissima. Ha i capelli lunghi arruffati, sono color del rame. Gli occhi verdi sono un prato di speranza. Il corpo è uno spettacolo, ha più curve di una strada di montagna.
Esco da quella casa con la certezza che non la rivedrò più, sono determinato a cambiare, è ora di far scorrere i titoli di coda su questa storia.

Arrivo alla macchina con un senso di leggera euforia. Mi sento bene, libero.
Accendo il motore, lo spengo.
Prendo il cellulare e scrivo un SMS, lo spedisco in meno di dieci secondi.
Meno di un minuto dopo il telefonino di lei emetterà un lieve bip. Quando leggerà il messaggio troverà le sue parole. Sorriderà, perché in fondo l’amore cos’è se non rabbia, paura, emozione, passione, sogno e ironia.
“Aspetta a cambiare il letto, ma almeno passaci lo swiffer, lì sotto è un disastro”.

mercoledì 27 febbraio 2013

Se



Vi siete mai chiesti, se poteste rinascere, chi o cosa vorreste essere ?
O quale dote o talento particolare, che non avete, vi piacerebbe possedere ?
Nel mio caso, dal momento che non ho alcuna dote particolare, ho avuto un ampio raggio di scelte tra le quali andare a pescare. Dunque, vediamo.

In questo periodo, che a dire il vero è iniziato da un po’, ogni canale televisivo che si rispetti ha nel suo palinsesto almeno un programma dedicato alla cucina, ormai in giro sono tutti grandi chef. Il fatto è che uomini e donne, combattuti tra il lavoro, i figli da portare a violino judo canto nuoto inglese, la palestra per rassodare glutei o addominali, gli ingorghi stradali e intestinali e i mal di testa cronici, la cucina la vedono solo per sbattere nel microonde il minestrone pronto findus  surgelato. E quindi a cosa serve fare vedere tutto questo spadellare, tutto questo affettare, questo sminuzzare, tutte queste preparazioni di piatti in stile art decò se poi non hai neanche il tempo di scolare l’olio della scatoletta di tonno ? Non lo so. Ma lo fanno, eccome se lo fanno.
Ma tutto questo per dire che cosa ? Ah già, pensavo a cosa mi piacerebbe fare “da grande”, e ho pensato alla cucina. Cucinare è un’attività che mi piacerebbe saper padroneggiare. Smadonnare sui fornelli, controllare la sana provenienza degli ingredienti, miscelare la giusta dose di carboidrati, proteine e grassi per rendere un piatto un sapiente connubio di bontà e genuinità. Tutto pur di soddisfare il palato, la pancia e pure l’occhio, che si sa, anche lui vuole la sua parte. Sì, saper cucinare con maestria mi darebbe grandi soddisfazioni, ma non mi voglio fermare al primo “sogno” nel cassetto, andiamo avanti.

 Un’altra dote che non disdegnerei affatto è la capacità di imparare, e quindi parlare, diverse lingue. E già mi vedo in giro per il mondo, sempre a mio agio in qualsiasi contesto, perché saprei sempre cosa dire e soprattutto saprei come dirlo, che sogno. Non farei più quelle figure imbarazzanti tipo quando in Francia mi sono visto portare un’ottima piovra quando io ero convinto di aver ordinato filetto al pepe verde. O quella discussione infinita con un albergatore spagnolo che mi ha raccontato la storia della sua vita, in dialetto stretto asturiano, che io ho concluso con un OLE’, perché ho capito il 30% di quello che mi ha detto. Per non parlare delle lunghe telefonate con i colleghi tedeschi, il loro inglese metallico faceva a cazzotti con il  mio: maccheronico.  Già, sapere le lingue mi piacerebbe parecchio. Se poi ci potessi aggiungere tanti soldi come contorno, penso proprio che potrei passare la mia vita a girare per il mondo, in pareo e panama nei mari del sud, in giacca di velluto con le toppe, camicia a scacchi sapientemente aperta su petto villoso e jeans a New York.

Altro giro.

E questa volta penso che potrei anche fermarmi qui. In questo momento sto ascoltando “Sultan of Swing” e ho capito cosa vorrei saper fare più di tutto : suonare la chitarra.
Come si può resistere a un assolo del genere, come non cadere, insieme al resto della mascella, dinanzi a un’esecuzione così potente, precisa, coinvolgente, diabolica. Ho sempre pensato che fare il musicista, meglio se cantante, fosse il mestiere migliore del mondo. Immaginatevi la scena : San Siro, ottantamila persone venute apposta per voi, per vedervi e sentirvi cantare. Buio, parte la musica, loro la riconoscono, iniziano a cantare, voi fate il vostro ingresso sul palcoscenico che ora è illuminato come l’astronave di incontri ravvicinati del terzo tipo, loro vi vedono e impazziscono lanciando un urlo selvaggio senza smettere di cantare, e voi state lì, in piedi, a godervi quella sensazione di immortalità, in silenzio. Poi iniziate a cantare e la magia iniziale viene addirittura amplificata dalla vostra voce. Se esiste il paradiso, ecco, io me lo immagino così. Eppure, se sapessi suonare come Mark Knopfler, potrei anche rinunciare al paradiso, che tra l’altro può attendere, e suonare solo per me stesso. Chiuso nella mia cameretta spoglia, amplificatore a basso volume; volerei tra arpeggi, scale, accordi, riff, evoluzioni stilistiche a folle velocità, fino ad ubriacarmi di note che fuggono dalle corde bollenti della mia Fender Stratocaster rossa. E sarebbe un finale che neanche Biancaneve. I due si guardarono per alcuni istanti e si riconobbero, si erano cercati per tanto tempo ed ora erano uno di fronte all’altra. Lui la prese delicatamente tra le sue braccia, lei lo lasciò fare, trepidante. Lui la accarezzò delicatamente, lei ebbe un brivido in fa diesis, poi lui iniziò a suonare e lei sprigionò dalle sue corde tutto l’amore di cui era capace. E vissero per sempre felici e cantanti.