giovedì 17 maggio 2012

I miei corti - Qui Pro Quo

Qui Pro Quo.
Il commissario Bini cammina velocemente, mani affondate nell’impermeabile grigio topo, colletto alzato alla Marlowe, testa incassata fra le spalle un po' curve, fa freddo, molto freddo. Avrebbe dovuto mettersi il giubbotto pesante ma, come sempre, la fretta di uscire glielo ha fatto passare di mente, e poi è affezionato a quel vecchio straccio, ne hanno passate tante insieme.
 Il rumore dei passi sulle mattonelle, rese bagnate e scivolose dall’umidità della notte, rimbomba sinistro sotto i portici ormai deserti. Solo alcune coraggiose biciclette, coi loro grossi ed inutili lucchetti, fanno compagnia alla camminata decisa del vecchio poliziotto. Un’altra giornata è passata, il caso del serial killer dei barboni, o come si dice alle conferenza stampa, di clochard, rimane un fascicolo tristemente aperto sulla sua scrivania, piena di scartoffie come l’ufficio postale è pieno di vecchi il giorno del pagamento della pensione. In entrambi i casi una scocciatura per chi ce ne ha a che fare.
 Basta, ne aveva abbastanza di tutto, ancora pochi giorni e sarebbe entrato in ospedale, aveva paura, una paura fottuta. Non capitava tutti i giorni di farsi cambiare il cuore, e lui al suo ci era particolarmente attaccato, anche se, a dirla tutta, ormai perdeva colpi un po’ troppo spesso. Il Dottor Canuti, un luminare, il numero uno nel Paese lo avrebbe operato e tutto si sarebbe sistemato. Ne era sicuro, voleva esserne sicuro. Del resto gli avevano spiegato che pochissimi chirurghi al mondo sarebbero stati in grado di fare quel genere di intervento.
 Già, perché non si trattava di un semplice togli e metti, no, c’era molto di più. Cosa ? glielo avevano spiegato mille volte e mille volte ma non lo aveva capito. Quel che sapeva era solo che senza quella operazione non avrebbe visto il prossimo capodanno, ma il Dottor Canuti, stringendogli la mano, lo aveva rassicurato con quel suo sguardo sicuro e glaciale, e quelle poche parole quasi recitate in modo enfatico. “Stia tranquillo, ne uscirà come nuovo, anzi, tornerà un ragazzino, mi creda”. Che poi sarebbe andato bene anche un uomo maturo, un ragazzino sarebbe stato chiedere fin troppo, pensò con un sorriso appena accennato il commissario.
 Mancava poco alla fine della sua camminata  e sarebbe arrivato a casa, ancora pochi passi e poi avrebbe abbracciato finalmente il caldo tepore del suo nido sicuro. Sua moglie Anna sicuramente lo stava aspettando in piedi, nonostante l'ora tarda, dopo quasi trent’anni di servizio, sempre la stessa storia, non si era ancora rassegnata all’idea del pericolo del lavoro del marito. Non si addormentava mai se il suo uomo non era in casa, lo avrebbe aspettato sveglia fino alla fine del mondo se fosse stato necessario. Poi all'improvviso un grido, sommesso, sordo, un campanello d’allarme scattò nel cervello allenato del commissario Bini, la mano alla pistola d'ordinanza, l’orecchio teso. Un altro rumore, un altro gemito. Più vicino stavolta.
 “Fermo, mani in alto”.
 Un uomo, vestito di nero con un cappello a tesa larga è  accovacciato su un barbone ormai immobile, ucciso. La pistola, ferma nella mano del commissario è puntata verso l’uomo dal cappotto nero e il cappello che ne nasconde le fattezze.
 “Mani in alto, non fare gesti strani o sei un uomo morto”.
 La voce è affettata, forte e chiara, il commissario è certo di avere di fronte il killer dei barboni, quel maledetto assassino che si diverte ad andare in giro a sgozzare poveri derelitti innocui ed indifesi. L’uomo col cappotto nero si volta in direzione della voce, lo squadra da capo a piedi poi parla, con una voce asciutta come un rigagnolo in piena estate.
 “L’ uomo morto sei tu”.
 E poi ride, ride forte, il commissario non capisce cosa abbia da ridere adesso quel pazzo. E poi quella voce, quella voce. È solo un attimo di sbigottimento, un secondo di smarrimento nel quale la pistola si abbassa di qualche centimetro e il killer ne approfitta, gettandosi contro l’uomo coll’impermeabile grigio topo. Un lungo coltello getta un riflesso bianco nella notte, è sbucato all’improvviso nella mano destra dell’assassino. La pistola spara. Il colpo è uno solo, preciso, in piena fronte, fatale.
 Il killer dei barboni è sdraiato sul selciato, immobile. Un rivolo di sangue macchia di scuro l’asfalto bagnato. Il commissario Bini rimette la pistola nella fondina, non ne ha più bisogno, sa riconoscere la morte quando la vede negli occhi. Fa due passi verso il killer, si china, scosta il cappello, rimasto accanitamente attaccato alla testa dell’uomo, lo osserva al chiarore freddo di un lampione che sparge riflessi algidi sul selciato. Un brivido gli corre lungo la schiena, lancia uno sguardo confuso intorno a se, alla notte rimasta muta, alle biciclette silenti, spettatrici loro malgrado, della breve e terribile violenza appena consumata. Poi tutto torna avvolto da un silenzio lugubre.
 “Pronto, ciao, sono il commissario Bini, manda una pattuglia e un paio di ambulanze in corso Italia. Ho appena ucciso il killer dei barboni, ho appena ucciso il Dottor Canuti”.
 E lui ha appena ucciso me. 

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