lunedì 21 maggio 2012

I Miei Corti - Poco ?

Poco?

“Guarischi papà”. La scrittura è infantile, le lettere si rincorrono disordinatamente, quasi non sapessero bene se si trovano nel posto giusto, incerte sul significato che così disposte vanno a formare, una h dispettosa è scivolata furtiva tra la c e la i; due semplici parole scritte in rosso che danno un senso di un amore senza confini.
Luca non riesce proprio a concentrarsi oggi, è la quarta volta che rilegge quel pezzo di carta posato davanti a lui e ancora non ha capito di cosa diavolo si tratti. Sente gli occhi di Lucia, seduta di fianco a lui, scrutarlo con attenzione, alla ricerca di un  indizio che le spieghi qualcosa circa la metamorfosi del suo collega, di solito chiuso e silenzioso come una chiesa il martedì mattina.
 Forse sarebbe stato meglio stare a casa, è che aveva bisogno di uscire, respirare quell’aria inquinata e sentire il cielo plumbeo sopra la testa, ascoltare il mesto canto di uccellini imprigionati dalla città caotica e malata, aveva bisogno di stare un’ora in coda per fare gli otto chilometri che separano casa sua dall’ufficio, in mezzo a clacson e insulti in dialetti che testimoniano, senza bisogno di sondaggi milionari, quanto Milano sia una città multietnica.
 Aveva bisogno di camminare su marciapiedi luridi, di compatire quegli alberi anemici e tristi. Un bisogno fisico di attraversare il male, il dolore, il disgusto quasi. Tutto ciò che per tanto tempo è stato sempre uguale, sempre fine a se stesso, la solita insulsa vita, sterile come un campo seminato a sale.
 Una necessità lacerante, con radici profonde come le rughe intorno ai suoi occhi chiari, oggi finalmente accesi di vitalità come fari di un porto sicuro. Oggi sa che  tutto quanto lo circonda è bello, di più, fantastico, niente può avvelenargli l’anima oggi. Seduto al suo posto, in ufficio, sfodera un sorriso sornione, accogliente come una baita di montagna quando fuori c’è tempesta, i colleghi intorno sono gentili e simpatici come non mai, anche Mario, il suo capo che non gli dà un aumento da quando c’erano ancora le lire, oggi è simpatico pure lui.
 Ogni tanto il braccio fa male, la frattura è fresca fresca, ma è un dolore che dà calore, sprigiona endorfine che riempiono cuore, stomaco, cervello lasciando una sensazione di benessere e di eccitazione.
 Luca si è alzato in silenzio questa mattina, ha dato un tenero bacio sulla fronte alla moglie, l’ha lasciata dormire, di un sonno profondo, rilassato, finalmente gli occhi delicatamente chiusi danno la sensazione che abbia trovato un luogo denso di pace, un posto tanto anelato. Un giardino dove la pace ti pervade e ti avvolge, come uno stampino nel quale hanno versato un budino alla crema prima che si solidifichi. Si è vestito al buio, poi è entrato nella cameretta di Jamà, dormiva anche lui, il respiro regolare, un sorriso felice sul volto rotondo; stava sdraiato su un fianco, le mani giunte, le gambe rannicchiate.
Vicino a lui, sul cuscino, la sua vecchia e malridotta bambola di pezza, quella che teneva sotto braccio quando è arrivato. Il suo unico bene, la sua ancora di salvezza, il legame con la sua casa, la sua terra.
 Luca apre il cassetto della scrivania, dentro ci mette la relazione che tiene tra le mani oramai da quasi un’ora, la leggerà domani, tutto ha acquistato un’importanza relativa, niente, dopo ieri, sarà più come era prima.
 Ritorna col pensiero a dieci mesi prima, al pomeriggio dell’arrivo di Jamà. Erano, lui e Marta, all’aeroporto, faceva caldo fuori, mentre dentro la grande sala l’aria condizionata regalava una frescura artificiale. Jamà era così piccolo, un fagottino scuro tenuto per mano da quella donna un po’ troppo altezzosa, un’assistente sociale dolce e sensibile come la signora Rottermaier.
 Sono seguiti mesi difficili, le parole imparate da Luca e Marta, per cercare un dialogo col bambino, infrante come bicchieri di cristallo sulla corazza difensiva del piccolo profugo. Un bambino che aveva visto e vissuto quello che nessun essere umano dovrebbe vivere mai, due occhi grandi, scuri e profondi come pozzi di una disperazione assoluta, un cuore fermo come un orologio senza carica, eppure vivo, vivo in una terra di morte. Poi, lentamente, col passare delle settimane la comparsa di qualche parola spizzicata, piccoli timidi sorrisi malinconici, i primi pasti con appetito. Ma nessun contatto fisico, esisteva tra di loro una barriera invisibile ed impenetrabile, la fiducia in quegli strani esseri gentili dalla pelle bianca che non vuole arrivare.
  Lo sapevano che l’adozione li avrebbe messi duramente alla prova, ne erano consapevoli, ci avevano pensato a lungo prima di decidere, poi la scelta, definitiva. Lo avrebbero fatto, avrebbero accettato la sfida.
E poi i dubbi, le incertezze, la paura di aver sbagliato tutto con quel piccolo orfano di guerra si erano impadroniti di loro di fronte ai tanti fallimenti, soffocanti come ragnatele di una casa tenuta troppo a lungo chiusa. I troppi pianti silenziosi di Marta, chiusa in bagno per nascondere l’angoscia al suo piccolo ospite. La depressione è un gatto che ti graffia all’improvviso lasciando nell’anima solchi incancellabili e dolorosi.
 Luca sorride ancora ripensando al giorno prima, una domenica come tante al parchetto sotto casa, quattro tiri ad un pallone senza entusiasmo, Marta seduta sul plaid sotto una betulla ad osservare ammirata i suoi due grandi amori. Il cane, grosso come un furgone porta valori che attacca all’improvviso, puntando deciso verso il collo di Jamà, lo scatto di Luca, perentorio, la lotta con l’animale, le grida, il pianto, la sirena, l’ospedale, la paura.
 La sera, a casa, sono tutti e tre seduti sul divano dal tessuto colorato, il bimbo seduto in mezzo all’uomo e alla donna, avvinti dalle immagini della televisione.
 Guardano “Gli incredibili”, sarà la quarta volta questo mese, a Jamà piace tanto.
 Stanno in silenzio, ognuno immerso nei propri pensieri, ancora spaventati per quanto è successo e allo stesso tempo sollevati per come è finita. Jamà d’un tratto si gira verso Marta, la osserva per qualche secondo, si allunga verso di lei e le dà un bacio sulla guancia, poi si alza e corre nella sua cameretta, con le pareti dipinte coi colori caldi che gli ricordano la sua terra, lasciando i due imbambolati.
 Torna tenendo in mano un pennarello rosso, afferra delicatamente il braccio ingessato di Luca, lentamente, con la fatica dipinta sul volto, scrive qualcosa, due parole un po’ sghembe. Luca e Marta leggono la scritta rossa sul gesso bianco, si guardano con un misto di commozione e stupore, Jamà li osserva coi suoi occhi grandi, sorride.
 Si rimette a sedere sul divano, in mezzo a loro. Sorride ancora. A guardarlo bene ha lo stesso sorriso di Luca, lo stesso sorriso di suo padre.

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