venerdì 22 giugno 2012

I Miei Corti - Senza nome

Senza Nome.

Impavido, contro il freddo pungente della sera; solo, come Lilly senza il vagabondo, nell’immensa distesa di neve linda, talmente bianca e pulita che ti vien voglia di buttarti dentro tanto ti sembra morbida ed accogliente, proprio come l’ovatta che hai messo nel presepe sul comò. Se ne sta lì impettito ad aspettare qualcosa, o qualcuno che gli tenga compagnia. Sembra sentirsi a proprio agio, con quelle braccia che puntano verso il cielo come sottili stecchi di legno, impermeabile all’indifferenza delle tante persone che, passandogli a fianco, quasi non lo degnano di uno sguardo. Ha imparato che la vita è fatta così, è un bene aleatorio, prima non ci sei, al massimo sei un'idea nella mente di qualcuno, poi cresci plasmato a loro piacimento, finché un bel giorno di te non rimarrà altro che una macchia di ricordo, che un raggio giallo di un sole tiepido farà svanire lentamente, in una mattina splendente e profumata di primavera. Ma oggi quel giorno sembra così lontano, speri che sia lontano.
 Le luci del Natale accese tutto intorno creano una bella atmosfera, una leggerezza nell’aria che si riesce a percepire anche nella gente che passa frettolosa, avvolta in cappelli di lana spessa e giubbotti dai colori un po’ tetri.  Ma che ti importa, tu continui imperterrito a sorridere a tutti, un sorriso che sembra un ghigno, un sorriso freddo, immobile, un solco scuro in un viso algido. E lo sguardo, altrettanto glaciale, come se guardassi senza vedere niente, o forse è solo perché quello che vedi non ti piace, non ti appartiene, due occhi scuri e fissi come bottoni di un cappotto d’altri tempi. Porti la cravatta, ma lo fai senza pretese di apparire elegante, del resto una cravatta del genere arriva sicuramente da un mercatino dell’usato, acquistata per pochi centesimi, forse è stata scelta perché si abbina alla perfezione col tuo naso, lungo ed affilato come una carota poco matura. Pensieri vagano liberi, sono parole con le ali spiegate verso emozioni lontane, leggeri come la neve che sta cominciando a cadere da un cielo bianco come il latte nella ciotola di Sambuca.
 Sambuca è un vecchio San Bernardo, prestato, suo malgrado, alla città. Passeggia alla ricerca di un albero, impresa non sempre agevole nel grigio di cemento della metropoli, col naso sfiora il bianco della neve, passa di fianco al tizio con la cravatta imbarazzante, è completamente assorto nella sua missione, alza la testa, lancia uno sguardo distratto e tira dritto verso qualcosa di più adatto dove poter fare pipì. Una bambina fa qualche passo timido verso di quegli occhi neri che sembrano fissarla, lo osserva con attenzione, gli sorride aspettandosi un sorriso, lo saluta aspettandosi un saluto. Non riceverà né l’uno né l’altro. Lui non è stato fatto per questo genere di cose, vorrebbe farlo, davvero. Ma non può.
Vorrebbe dirla qualcosa, chiederle di fermarsi un po' accanto a lui, regalarle un attimo di compagnia, dal quel sorriso immobile non escono suoni.
 La bimba, bella e dolce come una ninna nanna, chiama la madre, vuole mostrarle quello strano essere immobile davanti a lei. La madre ha fretta, deve tornare a casa, deve preparare la cena, deve mandare la lavatrice, deve lottare contro il disordine che regna sovrano nell’appartamento, deve deve deve. Natale non cambia i doveri di una madre, così, un po’ seccata per i preziosi secondi persi richiama a sé la figlia, che ubbidisce voltandosi un'ultima volta e salutando con la manina quello strambo personaggio.
 Così ora è di nuovo solo nel grande spazio bianco. Pensandoci bene non sa neppure come si chiama, si sono dimenticati di dirglielo o forse nessuno glielo ha dato un nome, a cosa serve dare un nome ad uno come lui, un nome dà un’identità, ti permette di dire IO SONO. E lui cos’è ?
 Solo un pupazzo, un malinconico e solitario pupazzo di neve.

Nessun commento:

Posta un commento