lunedì 10 dicembre 2012

I Miei Corti - Buon Appetito


Buon Appetito

 

“Veleno per topi”.

L’uomo si guarda attorno con fare smarrito, lascia cadere il cucchiaino metallico, che atterra sul pavimento dalle mattonelle sbeccate e traballanti come un pensiero peccaminoso, con un rumore sordo. Doveva aspettarselo, è stato forse troppo ingenuo ad entrare in quella casa disarmato, confidando che l'inarrestabile fluire dei granelli di sabbia della clessidra della vita avessero cancellato il dolore o almeno sbiadito i contorni del rancore.

L’appartamento è angusto, la sala cucina è arredata con semplicità, mobili vecchi e consunti ma tenuti in ordine e puliti, la carta alle pareti è in parte macchiata di umidità vicino agli angoli, un vaso con delle gerbere rosse sul comò e delle tendine rosa e gialle alla finestra colorano l’ambiente rendendolo accogliente nella sua onesta umiltà.

“Perché ?”.

 Chiede in un soffio, anche se in fondo conosce già la risposta. Afferra una sedia di paglia, la scosta lentamente dal tavolo di legno consumato e si siede lasciandosi cadere pesantemente. Si stringe nella giacca verde, si toglie il cappello a tesa stretta e lo appoggia sulla tavola, di fianco al piattino contenente la fetta di dolce appena intaccata.

“E perché no?”.

 La voce della donna è dura come la salita delle Ande in bicicletta, il suo sguardo è una lama che affonda nell’anima dell’uomo di fronte a lei. Gli anni passati hanno segnato il volto e il fisico di quella che un tempo, si intuisce, era una bellissima creatura, nata per vivere una vita serena, in una bella casa, con una famiglia felice. Una vita da favola di cui si sapeva già il finale: “ E vissero per sempre felici e contenti”. La favola che ogni bambino sogna per se. Solo che la favola si è rivelata essere un terribile incubo e ha vissuto una vita tutt' altro che felice e contenta ma straziante, sola in uno stabile decrepito nella periferia malata di Buenos Aires.

“Non avevo scelta, ho fatto solo quello che dovevo”.

 “Si ha sempre una scelta e la tua è stata quella sbagliata”.

 I due hanno parlato quasi sommessamente, come se parlassero del clima impazzito o di ricette di cucina, una sorta di distacco, denso come una giornata di nebbia nelle pampas in autunno, accompagna lo scandire delle parole, ancora fluttuanti nell’aria satura dell’odore di pollo arrosto poggiato di fianco alla cucina a gas.
 
 “Sono venuto per dirti che un dottore mi ha annunciato che sto per morire”.

 “Tutti dobbiamo morire. Io sono morta quarant’anni fa, sei tu che mi hai uccisa”.

 Un passerotto atterra sul davanzale, osserva distrattamente la scena all’interno della stanza, un attimo dopo vola via senza voltarsi, evidentemente ciò che ha visto non ha destato il suo interesse, o forse ha percepito qualcosa che, una volta svelato, avrebbe appesantito troppo le sue tenere ali.

 “Mi dispiace. Sono passato solo per chiedere scusa. Forse non sarei dovuto venire”.

 “Forse no”.

 I due rimangono in silenzio, si osservano muti, poi la donna riprende.

 “Sai, devo farti i  complimenti per il tempismo, ci hai messo solo quarant’anni per chiedere scusa, ma ormai è tardi, del resto sarebbe stato tardi anche quarant’anni fa”.

 Dal rubinetto gocce rumorose cadono nel lavandino di ceramica come macigni di una slavina, dall’orologio appeso alla parete di fianco alla stufa, il ticchettio costante si espande come una marea ineluttabile, dal piano di sopra rumori di corse, di botte, di piatti rotti e di insulti. Grida disperate si piegano alla ferocia di aride lacrime.

 “In quel tempo, in un'altra vita, mi sembrava giusto, dovevo proteggere il mio Paese, credevo di poter essere utile, di poter essere ricordato come un eroe, volevo che fosse così”.

 “E lo sei. Per il tuo Paese sei un eroe, hai raggiunto il tuo obiettivo, sei stato bravo e tenace. Hai tirato dritto per la tua strada spazzando via tutto ciò che si frapponeva tra te e la tua meta. Hai rubato, tradito, ucciso, mentito, ingannato, tutto per la vostra causa, per la tua causa.

 Purtroppo tra te e il tuo fanatismo si sono messe in mezzo persone, uomini, donne, bambini, un fastidioso  impiccio da travolgere e spazzare via. Come li chiamate voi? effetti collaterali, mi sembra”.

 L’uomo si china lentamente e afferra da terra il cucchiaino, poi lo appoggia delicatamente sul tavolo. Fuori, i rumori del traffico e dei clacson impazziti, sono un sottofondo dodecafonico che non ha la pretesa di penetrare i pensieri muti dei due. È ancora la donna che parla, la sua voce prende consistenza col passare dei minuti, i suoi occhi scuri gettano lampi di una vitalità tenuta a lungo sotto una cenere grigia come la sua esistenza.

 “Lo hai fatto anche con lui. Lo hai fatto portare via di notte, indossava ancora il suo pigiama a righe verdi e azzurre, quello che gli regalammo per un suo compleanno, ricordi ? Era terrorizzato. Stiamo parlando di tuo padre. Te lo ricordi? L’uomo che ti portava a vedere le partite di pallone, che ti teneva sulle spalle, che ti ha insegnato ad andare in bicicletta ?

 Lei se n’è andata poco dopo, non ha retto allo strazio, semplicemente una mattina non si è svegliata, credo sia morta sognandolo, il volto appoggiato sul cuscino aveva il sorriso beato di chi ha trovato quello che stava cercando”.

 “Ho saputo tutto, subito. Mi dispiace, vorrei poter tornare indietro ma non si può, è un peso che mi porto dentro da tutta la vita. Sono venuto a salutarti prima di lasciare questo schifo di mondo”.

 Il vecchio generale fa per alzarsi, ma improvvisamente il peso della costellazione di stelle sulle spalline e sul petto della divisa militare d’ordinanza sono un fardello che gli piega le ginocchia, è costretto ad uno sforzo ulteriore per riuscire a rimanere eretto, fiero e maestoso come un tempo, quando sfilava alla parate del regime, quando era osannato come un dio”.

 L’uomo si avvia verso la porta verde alla quale è appesa una piccola ghirlanda di fiori di plastica multicolori, apre la porta, si volta verso la donna rimasta seduta sulla sua sedia di paglia, con lo sguardo perso nel vuoto e le mani sul grembo.

 “Mi hai davvero avvelenato con il dolce preferito della mamma?”.

 “E come avrei potuto, sei pur sempre mio fratello”.

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