Buon Appetito
“Veleno per topi”.
L’uomo si guarda attorno con fare
smarrito, lascia cadere il cucchiaino metallico, che atterra sul pavimento dalle
mattonelle sbeccate e traballanti come un pensiero peccaminoso, con un rumore
sordo. Doveva aspettarselo, è stato forse troppo ingenuo ad entrare in quella
casa disarmato, confidando che l'inarrestabile fluire dei granelli di sabbia
della clessidra della vita avessero cancellato il dolore o almeno sbiadito i
contorni del rancore.
L’appartamento è angusto, la sala
cucina è arredata con semplicità, mobili vecchi e consunti ma tenuti in ordine
e puliti, la carta alle pareti è in parte macchiata di umidità vicino agli
angoli, un vaso con delle gerbere rosse sul comò e delle tendine rosa e gialle
alla finestra colorano l’ambiente rendendolo accogliente nella sua onesta umiltà.
“Perché ?”.
Chiede in un soffio, anche se in fondo conosce
già la risposta. Afferra una sedia di paglia, la scosta lentamente dal tavolo
di legno consumato e si siede lasciandosi cadere pesantemente. Si stringe nella
giacca verde, si toglie il cappello a tesa stretta e lo appoggia sulla tavola,
di fianco al piattino contenente la fetta di dolce appena intaccata.
“E perché no?”.
La voce della donna è dura come la salita
delle Ande in bicicletta, il suo sguardo è una lama che affonda nell’anima
dell’uomo di fronte a lei. Gli anni passati hanno segnato il volto e il fisico
di quella che un tempo, si intuisce, era una bellissima creatura, nata per vivere una vita
serena, in una bella casa, con una famiglia felice. Una vita da favola di cui
si sapeva già il finale: “ E vissero per sempre felici e contenti”. La favola
che ogni bambino sogna per se. Solo che la favola si è rivelata essere un
terribile incubo e ha vissuto una vita tutt' altro che felice e contenta ma straziante,
sola in uno stabile decrepito nella periferia malata di Buenos Aires.
“Non avevo scelta, ho fatto solo
quello che dovevo”.
“Si ha sempre una scelta e la tua è stata
quella sbagliata”.
I due hanno parlato quasi sommessamente, come
se parlassero del clima impazzito o di ricette di cucina, una sorta di distacco,
denso come una giornata di nebbia nelle pampas in autunno, accompagna lo
scandire delle parole, ancora fluttuanti nell’aria satura dell’odore di pollo
arrosto poggiato di fianco alla cucina a gas.
“Sono venuto per dirti che un
dottore mi ha annunciato che sto per morire”.
“Tutti dobbiamo morire. Io sono morta
quarant’anni fa, sei tu che mi hai uccisa”.
Un passerotto atterra sul davanzale, osserva
distrattamente la scena all’interno della stanza, un attimo dopo vola via senza
voltarsi, evidentemente ciò che ha visto non ha destato il suo interesse, o
forse ha percepito qualcosa che, una volta svelato, avrebbe appesantito troppo le sue tenere ali.
“Mi dispiace. Sono passato solo per chiedere
scusa. Forse non sarei dovuto venire”.
“Forse no”.
I due rimangono in silenzio, si osservano
muti, poi la donna riprende.
“Sai, devo farti i complimenti per il tempismo, ci hai messo
solo quarant’anni per chiedere scusa, ma ormai è tardi, del resto sarebbe stato
tardi anche quarant’anni fa”.
Dal rubinetto gocce rumorose cadono nel
lavandino di ceramica come macigni di una slavina, dall’orologio appeso alla
parete di fianco alla stufa, il ticchettio costante si espande come una marea ineluttabile,
dal piano di sopra rumori di corse, di botte, di piatti rotti e di insulti. Grida disperate si
piegano alla ferocia di aride lacrime.
“In quel tempo, in un'altra vita, mi sembrava
giusto, dovevo proteggere il mio Paese, credevo di poter essere utile, di poter
essere ricordato come un eroe, volevo che fosse così”.
“E lo sei. Per il tuo Paese sei un eroe, hai
raggiunto il tuo obiettivo, sei stato bravo e tenace. Hai tirato dritto per la
tua strada spazzando via tutto ciò che si frapponeva tra te e la tua meta. Hai
rubato, tradito, ucciso, mentito, ingannato, tutto per la vostra causa, per la
tua causa.
Purtroppo tra te e il tuo fanatismo si sono
messe in mezzo persone, uomini, donne, bambini, un fastidioso impiccio da travolgere e spazzare via. Come
li chiamate voi? effetti collaterali, mi sembra”.
L’uomo si china lentamente e afferra da terra
il cucchiaino, poi lo appoggia delicatamente sul tavolo. Fuori, i rumori del
traffico e dei clacson impazziti, sono un sottofondo dodecafonico che non ha la
pretesa di penetrare i pensieri muti dei due. È ancora la donna che parla, la
sua voce prende consistenza col passare dei minuti, i suoi occhi scuri gettano
lampi di una vitalità tenuta a lungo sotto una cenere grigia come la sua esistenza.
“Lo hai fatto anche con lui. Lo hai fatto
portare via di notte, indossava ancora il suo pigiama a righe verdi e azzurre, quello
che gli regalammo per un suo compleanno, ricordi ? Era terrorizzato. Stiamo
parlando di tuo padre. Te lo ricordi? L’uomo che ti portava a vedere le partite
di pallone, che ti teneva sulle spalle, che ti ha insegnato ad andare in
bicicletta ?
Lei se n’è andata poco dopo, non ha retto allo
strazio, semplicemente una mattina non si è svegliata, credo sia morta
sognandolo, il volto appoggiato sul cuscino aveva il sorriso beato di chi ha
trovato quello che stava cercando”.
“Ho saputo tutto, subito. Mi dispiace, vorrei
poter tornare indietro ma non si può, è un peso che mi porto dentro da tutta la
vita. Sono venuto a salutarti prima di lasciare questo schifo di mondo”.
Il vecchio generale fa per alzarsi, ma
improvvisamente il peso della costellazione di stelle sulle spalline e sul
petto della divisa militare d’ordinanza sono un fardello che gli piega le
ginocchia, è costretto ad uno sforzo ulteriore per riuscire a rimanere eretto,
fiero e maestoso come un tempo, quando sfilava alla parate del regime, quando
era osannato come un dio”.
L’uomo si avvia verso la porta verde alla
quale è appesa una piccola ghirlanda di fiori di plastica multicolori, apre la
porta, si volta verso la donna rimasta seduta sulla sua sedia di paglia, con lo
sguardo perso nel vuoto e le mani sul grembo.
“Mi hai davvero avvelenato con il dolce
preferito della mamma?”.
“E come avrei potuto, sei pur sempre mio
fratello”.
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