martedì 6 novembre 2012

Era il 1991 e volevo la bicicletta


Se ci penso, chi me l’ha fatto fare? Quante ore sono che pedalo?

Quella che poche ore prima si era preannunciata come una di quelle giornate indimenticabili, di quelle che si collocano direttamente nella bacheca delle leggende,  si sta rivelando come tale, ma non era esattamente a questo che pensavo quando mi sono seduto sul sellino di questa maledetta bicicletta.

L’idea malsana della vacanza in bici ci era venuta qualche giorno prima, seduti sotto un albero morente in un prato spelacchiato di un parco malmesso di Milano. Tracannavamo spuma per mandare giù dei canestrelli scaduti. Claudio sonnecchiava con la bolla al naso mentre Paolo rifletteva ad occhi chiusi da dieci minuti, rifletteva!  E quando tre uomini si trovano nella felice congiunzione astrale  della vita nella quale eravamo noi, nei nostri splendidi e lontani ventun'anni, anche la proposta della pedalata Milano-Genova, con finale in Corsica, non sembrava poi così stramba.
E invece...sto maledicendo la mia avventatezza sfrontata, sto per abbandonare questa valle di lacrime. Oddio, devo ammettere che il pranzo a Tortona ha giocato un ruolo importante per definire lo stato psico-fisico nel quale mi trovo, ma cosa devo dirvi, avevamo fame. Pasta al forno di primo seguito da cotoletta alla milanese e patatine fritte, annaffiate da un vinello della casa bastardo come il ghigno dell’omone che ce lo ha servito, non proprio la dieta del buon ciclista. Ecco perché adesso, su questa strada assolata di metà luglio, nella luce tremolante del caldo africano che precede un'insolazione, vedo davanti a me la signora in giallo che si accoppia selvaggiamente col dottor Spock, che dalla foga gli si sono pure arrotondate le orecchie e c'è mia madre che prende appunti. Sento il cuore che mi pulsa nelle gengive e rimpiango un’insalatina fresca con una barretta energetica e un boiler di acqua gelata.

Pedalo e non penso a niente, vedo le schiene dei miei amici sudate e curve sui manubri, le borse appese mollemente di fianco ai nostri scudieri di ferro, piene di cianfrusaglie per lo più inutili ma pesantissime. Il caldo è opprimente, le macchine ci sfrecciano vicine con rombi cattivi, gli occupanti ci guardano con sorrisi di compatimento, di quelli che si riservano a di chi ha vinto la medaglia di cartone alle olimpiadi. Quando sento che sto per svenire, con un ultimo refolo di fiato chiamo i miei amici : “ahahiaempf”. Non mi escono le parole, ho la gola arida, gli occhi secchi, i polmoni sgonfi, le gambe molli e il culo che…è come se non avessi più il sellino e credetemi, non è bello pedalare così. Percepisco che si sono fermati, mi aspettano. Uno di loro mi dice “dai attaccati, ti tiro io”. Penso che potrei sposarlo per questo.
Il passo del Turchino lo faccio a piedi, tiro la mia bici tenendola dal manubrio, lei mi osserva stranita, mi sento come Mosè che fugge dagli egiziani. Ma resisto. In qualche modo arriviamo a Genova, mi ricordo solo l’ultimo pezzo, una discesa che mi ha fatto piangere dalla commozione. Poi, non so come, mi trovo su una sdraio sul ponte del traghetto, scopro con un sorriso ebete che soffro pure il mal di mare, in effetti mancava la ciliegina sulla torta.

Quando mi sbarcano, come fossi un vecchio container arrugginito, strizzo il maglione comlpetamente bagnato che ho tenuto addosso duranta la traversata, apro gli occhi e vedo il mare, sento il profumo della macchia mediterranea, il cielo azzurro, le urla dei gabbiani, quattro ragazze sorridenti in bikini e penso che sì, ne valeva la pena. Poi una voce mi distoglie bruscamente dai miei pensieri: “Dai che dobbiamo arrivare a Calvì, dall’altra parte di questa montagna”.
E se non la volessi più la BICI?

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