Lo
sapeva, se lo sentiva che sarebbe accaduto proprio in quella circostanza, era il
momento che aspettava da tempo. Non provava dolore né tristezza, ma solo la fredda
consapevolezza di essere arrivato al capolinea, finalmente. Poche ore prima,
quando si era svegliato, l’idea di quello che avrebbe fatto quel giorno gli era
balenata violentemente nella testa appena aperti gli occhi. Alzandosi con
fatica dal letto, sentendosi addosso tutti i suoi settantotto anni, aveva
deciso che sarebbe andato giù al fiume a pescare, come faceva fino a qualche
anno prima, quando, in compagnia di vecchi e fidati amici, trascorreva
serenamente le lunghe giornate della tanto agognata e altrettanto odiosa età
della pensione. Aprendo le tapparelle della vecchia casa del paesino sperduto
nelle campagne della bassa padana, si trovò di fronte il solito panorama
piatto, mosso appena dalla linea ferroviaria ad alta velocità, che negli ultimi
anni aveva dato un po’ di brio alle conversazioni davanti ad un bicchiere di bianco
al bar. Il cielo era acciaio che
lasciava cadere obliquamente lacrime sottili e timide. Non aveva avuto bisogno di guardare fuori per
sapere che il tempo quella mattina era inclemente, se lo sentiva nelle ossa,
che avevano scricchiolato con sinistri clack in ogni giuntura appena messi i
piedi per terra. L’artrite è una ruggine spietata che consuma le energie,
lentamente, giorno dopo giorno, lotta strenuamente contro la tua volontà di
andare avanti fino a trasformarti in una statua, immobile. Ogni movimento ti
costa sempre più fatica e dolore. Ora
l’uomo cerca di stirarsi allungando le braccia verso l’alto e piegando il collo
da una parte all’altra, con cautela, senza strafare, giusto un po’, per
riattivare la circolazione del sangue nell’organismo, per dare una lieve
scossa. Per dire “io sono ancora qui, ho ancora bisogno di te, caro vecchio e
stanco corpo”.
L’aria
non è particolarmente fredda, l’autunno quest’anno sta regalando giornate dalle
temperature miti. Sarà colpa del riscaldamento globale, che a dirla tutta a lui
qualche grado in più non ha mai fatto male, anzi. Respira a pieni polmoni il
dolce profumo dell’erba bagnata, inspirando col naso, poi chiude la finestra,
esce dalla camera da letto e cammina verso la cucina. Mette a scaldare il latte
mentre si prepara il caffè nella piccola
caffettiera da uno. Dallo scaffale di fianco al lavandino prende le fette
biscottate che immergerà nel caffelatte, ha rinunciato a tante cose col passare
degli anni ma a quello proprio non riesce a fare a meno, il gusto della fetta
che si imbeve di latte è un piacere che non può negare al proprio palato. Dopo
la colazione va in bagno, si lava e si fa la barba, come ogni mattina, anche se
ormai cresce pochissimo e si vede giusto un’ombra grigia sotto il naso e sul
mento. Si guarda allo specchio, gli occhi di un verde chiaro, leggermente
velati dall’età, lo osservano con quella pacata serenità di chi nella vita si è
sempre comportato seguendo le regole. Ubbidendo al conformismo e ai canoni
imposti dal vivere in un piccolo paese. Del resto a lui non è mai costato
grande fatica, i suoi genitori lo avevano educato al rispetto verso se stesso e
verso gli altri, senza compromessi. Una vita limpida, senza macchie, senza inutili
voli pindarici e grandi sogni irrealizzabili, che possono permettersi solo quei
fortunati nati nelle famiglie ricche.
Un
matrimonio riuscito, un figlio di cui andare fieri. Il lavoro nella bottega
paterna come calzolaio. Gli amici del bar Centrale. La vita che, placidamente,
scorre via. Felicemente ? Sì, felicemente, perché anche sapersi accontentare di
quello che si ha è un pregio, un dono del Signore e va custodito gelosamente e
con parsimonia. Poco dopo è indaffarato nella preparazione della cassetta per
la pesca, nella quale sta controllando che tutto sia in ordine : le lenze, gli
ami, le pinze, il coltellino. Prende dallo sgabuzzino il secchiello giallo, che
spera di riportare a casa pieno di pesci. Dall’armadio sfila la giacca senza
maniche color verde scuro zeppa di tasche di ogni misura, è stato un regalo di
lei. Ricorda il giorno in cui Teresa, sua moglie, gliel’ha fatta trovare ben
stesa sul divano a due posti in sala. Era il suo compleanno, era così giovane e
in gamba allora. Compiva sessant’anni e loro due erano già sposati da quasi
quarant’anni. Torna in cucina per prepararsi un panino al prosciutto cotto e versa
in una bottiglietta di acqua, già piena per metà, un po’ di vino fino a
riempirla. Prende il cappellino, quello che indossa sempre in queste occasioni,
lo mette in testa, prende la cassetta ed esce di casa dopo aver dato un ultimo
sguardo all’appartamento silenzioso.
Il
viaggio con la vecchia utilitaria è breve e si svolge nel silenzio della
campagna che sta ancora riposando. Non c’è molto da fare in giornate come
questa. Anche di macchine in giro ce ne sono poche.
Un’ora
più tardi è seduto nella sua seggiolina ripiegabile, la canna da pesca tenuta
mollemente tra le mani, lo sguardo sull’acqua verde del fiume che passa lenta
sotto i suoi occhi. Qualche uccellino che vola via cantando malinconicamente. I
ricordi che si presentano alla porta della memoria senza invito. Un sorriso malinconico. La
vita.
Il
primo pesce della giornata lo coglie impreparato, il galleggiante scompare per
un attimo sotto il pelo dell’acqua, è una lotta impari ma a giudicare da quanto
tira la lenza deve essere un barbo, i pesci più combattivi della zona. L’uomo
gioca col mulinello, avvolge e lascia, dà tregua per qualche attimo e poi tira
con determinazione, la forza del pesce diminuisce, la battaglia è finita, viene
sollevato dall’acqua. Un guizzo, due colpi di coda, qualche schizzo d’acqua.
Guido stacca con delicatezza l’amo dalla bocca del pesce, che sembra lo guardi
con rabbia, con aria di sfida, e lo depone nel secchio giallo.
“Luigi
ci facciamo un goccio?”. Ha parlato per la prima volta da quando si è svegliato
e lo ha fatto con un vecchio amico. Un amico morto ormai da tre anni. A volte
si dimentica di essere rimasto solo. Sfila dal sacchetto di tela la
bottiglietta di acqua e vino e prende una sorsata. La mattina sta scivolando via, nel secchio
giallo un barbo e due cavedani si contendono lo spazio nuotando nervosamente.
“Mario,
alla fine non ci siamo mai andati verso “il fosso”, dove il Luigi per un pelo
ci moriva. Lo sai che dicono che lì ci sono delle carpe spettacolari, ma noi
abbiamo sempre avuto timore di scivolare sui sassi. La paura ci ha privato di tante
cose. Forse abbiamo giocato male le nostre carte. Forse avremmo dovuto osare di
più”.
Il
galleggiante in fondo alla lenza affonda ancora una volta, Guido non si accorge
di nulla, continua il suo monologo con gli amici di un tempo. Il fatto che non
si vedano non vuol dire che non ci siano, che non siano di fianco a lui a
condividere ancora una volta una serena giornata di pesca tra amici. Lui li
vede, li sente. Percepisce la loro presenza. Una volta ha sentito dire in un
film, che si deve pensare ai propri cari morti come se fossero nella stanza
accanto alla nostra, non puoi vederli ma sai che sono lì, accanto a te. Questo
pensiero col tempo lo ha rasserenato, gli ha ridato la certezza della compagnia
di cui aveva tanto bisogno per non impazzire di solitudine. Si alza dal seggiolino barcollando
leggermente, raccoglie la canna da pesca, e si avvia verso quello che lui e gli
amici hanno sempre chiamato “il fosso”, una pozza profonda dalla forma
circolare, larga circa tre metri a pochi passi dall’argine del fiume, verso il
centro del greto.
“Teresa,
stasera ci facciamo una frittura che te la sogni. Non ti preoccupare, li
pulisco io i pesci, lo so che è un lavoro che non ti piace fare, non ti è mai
piaciuto. In fondo in cucina non ti sei mai sentita a tuo agio. A avevi tante
altre doti stupende, ma io ti amavo più per quelle che ti mancavano. Ti
rendevano più vulnerabile e dolce. Ah, pensavo di invitare anche Mario e Luigi,
se la pesca va come immagino ci sarà pesce per tutti”.
L’uomo
cammina a testa bassa, stando bene attento a dove mette i piedi, si ferma per
un attimo e si guarda intorno, come a voler fotografare quell’attimo,
imprimersi nella memoria le forme, i colori, gli odori di quella giornata
passata ancora una volta con gli amici di un tempo, a pescare.
Ritorna
a quelle giornate lontane, alle risate, alle battute feroci tra loro quando
tornavi a casa senza aver preso niente, felice comunque per aver trascorso tante
ore liete con i propri amici. Ricorda Teresa, che lo aspettava trafelata,
sempre intenta a tenere in ordine la loro casetta, il loro nido, come soleva
dire teneramente lei con orgoglio.
Guido è
ormai giunto sul ciglio del fiume, fa qualche passo avanti, avventurandosi
nell’acqua bassa, verso “il fosso”. Cammina con passo malfermo, la canna nella
mano destra, il braccio sinistro tenuto lontano dal corpo, come un’equilibrista
che ha bevuto un bicchierino di troppo, procede verso la sua meta.
“Tranquillo
Luigi, sto attento. Lo so che è pericoloso, che i sassi qua sotto sono
infingardi e traditori. Mario, tu tieni d’occhio il mio secchio coi pesci,
guarda che li ho contati, se quando torno ne manca qualcuno ti sfilo il sellino
della bicicletta e ti faccio tornare a casa così”. Ride di gusto ora, quella è
una battuta che usano tra di loro da tutta la vita, da quando erano ragazzini
coi pantaloni corti e correvano per i campi alla ricerca di qualcosa da
mangiare, dopo la guerra. Lentamente
arriva in prossimità del “fosso”, getta l’amo verso il nero di quel buco che lo
ha sempre intimorito e aspetta. Uno strattone, un altro, un po’ più forte. Risponde
al colpo con determinazione, sente un’allegria nuova sfociargli dal petto, sta
pescando al “fosso”, ha vinto la sua paura, ha sconfitto l’istinto di
conservazione, che con la vecchiaia si è forse assopito, l’ha colto di
sorpresa. Fregandolo. Prova a dare un altro scossone tirando a se la canna, ma
succede qualcosa.
Un piede
scivola su un sasso piatto, l’equilibrista vacilla, si scompone, cade in acqua
con un tuffo sordo. Le braccia si agitano nell’acqua scura, un respiro che si
interrompe dall’afflusso di acqua che lo coglie all’improvviso riempiendogli la
bocca. I vestiti inzuppati sono un’armatura di ferro che tira verso il basso
con rabbia. Le braccia si muovono meno, la stanchezza sta prendendo il
sopravvento. “Arrivo Teresa, prepara la tavola, tra poco sono da te”. Un altro
guizzo verso l’alto, un disperato tentativo di tornare a galla, un respiro
profondo, poi la lenta discesa verso il buio.
“I miei pesci, li ho lasciati nel secchiello,
moriranno. Speriamo che qualcuno li trovi prima che muoiano, sarebbe un vero peccato”.
L’ultimo pensiero di Guido fu per i suoi
pesci, gli avevano tenuto compagnia così tante volte, forse era giusto che
fossero loro ad accompagnarlo anche nel suo ultimo viaggio, il viaggio verso
sua moglie e i suoi amici, verso la pace di un’eternità senza artrite né
dolori.
Nessun commento:
Posta un commento